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Se una operazione verità sul Pnrr e sui suoi cosiddetti ritardi deve essere condotta, è bene che sia completa e seria, fuori da tattiche politiche di breve periodo, per rispetto dell’Europa e dei cittadini italiani, e anche per l’onore dell’Italia. Una breve storia. La grande importanza del varo del NGEU di circa 750 milioni, in piena pandemia e con il Patto di Stabilità e Crescita sospeso, fu l’accettazione, per la prima volta, da parte dei Paesi dell’Unione di finanziare un programma di sostegno alle economie europee con emissione di debito europeo. Fu il grande passo verso un’Europa più forte, più unita e più solidale. L’ammontare delle risorse implicate era la parte più contingente e meno importante. Questo passo avrebbe dovuto essere onorato, da parte dei Paesi europei, con un approccio serio e consapevole rispetto alla possibilità di beneficiare delle opportunità. Questo è quel che fecero la stragrande maggioranza dei Paesi, che decisero di utilizzare con parsimonia questa apertura di credito. Guardando a ciò che loro serviva e in base ai propri progetti, la maggior parte dei Paesi ha deciso di non accedere alla componente a prestito del fondo europeo, ma di utilizzarne solo la componente definita a “fondo perduto”. Tra i Paesi rilevanti solo l’Italia decise di far “man bassa”, se ci si consente l’espressione, dell’intera quota ad essa spettante, sia quindi della parte che rappresentava nuovo debito italiano futuro e sia di quella rappresentata da debito europeo. Una quota che era più elevata di quella a disposizione. Il governo di allora si presentò trionfante in Italia sventolando il cospicuo assegno con uno stile che richiamava alla mente il famoso balcone da cui fu dichiarata la fine della povertà, sempre in ogni caso a debito. Ma come accade al bambino povero che entra per la prima volta in un negozio di dolciumi e si riempie bocca e tasche di caramelle, tranne poi beccarsi un bel mal di pancia, anche quel governo di ventura ebbe il suo bel mal di pancia quando dovette chiedersi come utilizzare quei fondi, per quali progetti e come attuarli in tempi ristretti, sotto la sorveglianza della Commissione. Il mal di pancia fu tale che quel governo fallì clamorosamente nell’intento e, per salvare l’onore dell'Italia, fu chiamato Mario Draghi che ci mise generosamente la faccia, cercando di mettere un poco d’ordine nel nostro beneamato Pnrr.
Nonostante la retorica patriottica ben pochi pensavano che il Piano, soprattutto nella sua componente di spesa effettiva per investimenti nei vari campi previsti, fosse del tutto realizzabile. Anche perché i veri progetti non c’erano. Si guardava in ogni caso con speranza alle riforme, che dal desiderio di incassare i prestiti potevano trarre una spinta realizzativa. Fu tuttavia una scelta corretta a quel punto cercare di andare avanti in tutti i modi. Non ho mai aderito all’idea che il Pnrr e le sue risorse fossero l’occasione epocale per il rilancio della crescita economica italiana. Sia perché la crescita non deriva solo dall’avere risorse finanziarie, sia perché sapevo quanto fossero significative le risorse finanziarie che l’Italia già aveva a disposizione per investimenti pubblici, risorse che non venivano utilizzate. E non parlo solo dei fondi europei di coesione. Tuttavia, era bene cercare di sfruttare la spinta emotiva proveniente dal Pnrr per tentare di ottenerne anche una operativa. La sfida era quella di cercare di uscire dall’inazione e dare fiducia al Paese nel possibile cambiamento. Ma proprio per questo motivo, non credo che il tema sia quello dei ritardi. Ritardi rispetto a cosa? Rispetto alla spesa programmata o rispetto all’utilizzo corretto dei fondi a disposizione, cioè a una spesa oculata per progetti utili e ben congegnati? Si può anche pensare a come accelerare, per fare un esempio, l’elargizione di miliardi per la ricerca alle università, ma mi devo chiedere come siano selezionati i progetti di ricerca e i ricercatori, non solo in quantità tale da assorbire i tanti miliardi a disposizione ma anche in qualità adeguata, dopo decenni in cui alla ricerca non è stata data alcuna risorsa significativa. Siamo sicuri che la nostra industria delle costruzioni sia in grado di realizzare in pochi anni tutte le infrastrutture teoricamente finanziabili, ammesso che ci siano progetti seri a disposizione? Nel frattempo, il contesto economico è cambiato e abbiamo un’inflazione che richiede una politica di bilancio che non alimenti l’inflazione. Si tratta quindi di partire da un’operazione di verità e anche di serietà. Ponendosi di fronte alla Commissione europea per una rinegoziazione. Penso che possa essere accolto il proposito di utilizzare le risorse in modo da massimizzarne il rendimento, di rallentare una spesa che non dovrebbe essere solo destinata ad alimentare la domanda, ma a rafforzare l’offerta di servizi e beni. Ricordandoci che ciò che conta è salvare il passo in avanti europeo compiuto con il NGEU e rispettarne le finalità con un approccio che contempli anche flessibilità e correzioni migliorative. Siamo di fronte a una stagione di riforme europee e il modo migliore di esserne attori, e di non “stare con il cappello in mano”, è quello di porsi dalla parte della serietà, responsabilità e affidabilità. E questo non collide con il dire la verità e riconoscere gli errori. Al contrario, ne è il presupposto.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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