Ascoltare è una perdita di tempo? Solo quando non lo si fa in modo corretto
Il rischio è il “groupthink”, la patologia del pensiero per cui pensarla in tanti allo stesso modo ci fa illudere che le cose andranno come pensiamo
di Massimo Calì *
3' di lettura
Torno su un argomento che spesso ho trattato in questa rubrica, l’ascolto. In particolare, provo ad approfondire un aspetto su cui mi confronto, con le persone che incontro nelle aziende, con una frequenza che credo rilevante: ma non è che ascoltare è molto di moda, molto educato e politicamente corretto, ma è una perdita di tempo? Non ottengo gli stessi risultati dicendo direttamente quello che devo, senza perdere tempo ad ascoltare gli altri?
Quando incontro queste domande, non sono provocazioni ma obiezioni che raccontano perplessità sincere.
Anche per questo, in coerenza con il tema, sono meritevoli di ascolto: evidentemente chi me le pone non trova un beneficio ad ascoltare (che è anche la spiegazione tautologica che ottengo indagando direttamente: “ho perso tempo ma non mi pare mi sia servito a nulla”).
Credo di aver identificato almeno un motivo per cui non si trova beneficio dall’ascolto soprattutto osservando (ascoltando!), nei tanti lavori di aula e di teamwork, coloro che non mi avanzano esplicitamente l’obiezione ma che analogamente non sembrano trarre beneficio dall’ascolto. E la spiegazione (temporanea, il tema rimane aperto) che mi sono dato è che certamente stanno investendo del tempo in una attività che chiamano “ascolto” ma non ne vedono i frutti perché ascolto non è.
Che sia in rapporti tra pari (in team o a due) o che sia in una relazione capo / collaboratore (in entrambe le direzioni) spesso è effettivamente entrata nei comportamenti l’abitudine ad ascoltare l’altro (per moda, per evoluzione dello stile della casa, per scelta e per convinzione valoriale); di fatto però questa si traduce nel “lasciare tempo all’altro perché possa parlare”. Con grande pazienza, rispetto e educazione, ma investendo solo il tempo, che mentre l’altro parla viene utilizzato per continuare a pensare dove sbaglia, a chiedersi come fa a dire / pensare quelle cose, a interrogarsi su come portarlo dalla propria parte.
Prova ne è spesso il fatto che, lasciato terminare il collega, si “riparte” per la propria strada come se nulla fosse. È un ottimo punto, intendiamoci. Un fondamento dell’ascolto è tacere e lasciar parlare. Ma non è sufficiente: posso portarti dalla mia parte (forse) solo se ho capito dove stai e perché. E fino a che non ti ascolto davvero, non riuscirò mai a farlo se non per caso. Continuerò a dire, sempre allo stesso modo (o in modi fantasiosamente diversi, ma scollegati dal mio interlocutore) dove sono io e perché dovresti venire da me, secondo me. Senza cambiare quindi le mie probabilità di portarti dove sono io.
Torniamo allora su alcune questioni: ci sono situazioni nelle quali ci sembra che possiamo non ascoltare. Sono tutte quelle in cui, se ignoriamo aspetti etici e valoriali, per il raggiungimento del risultato la volontà dell’altro non è rilevante. Tra pari, tipicamente potrei non ascoltare la minoranza (se arriveremo a votare tanto è minoranza); come capo, se posso dare ordini; come collaboratore, se posso continuare a fare di testa mia perché non posso essere realmente costretto.
Certo, anche in questi casi, non ascoltare ci fa correre rischi: la minoranza in una decisione di gruppo potrebbe salvarci dal famigerato groupthink, la patologia del pensiero per cui pensarla in tanti allo stesso modo ci illude che abbiamo ragione e che le cose andranno come pensiamo. Il mio capo magari non ha potere immediato, ma alla lunga potrà far valere la sua opinione su quanto sono collaborativo, quanto gioco di squadra, quanto colgo il senso del gioco e del perché le cose vanno fatte, quanto recepisco i feedback.
D’altro canto, il mio collaboratore forse fa quello che gli dico anche se non lo ascolto, ma solo se sussistono mille condizioni contemporaneamente (breve elenco non esaustivo: è competente, deve solo eseguire e non anche metterci del proprio; non può ammutinarsi – assenze, insubordinazioni, menefreghismo eccetera). Nelle altre situazioni (contatele, vi stupirà quante sono) l’ascolto serve a provare a capire perché l’altro fa quello che fa, invece di quello che penso io. E quindi aiutarlo a vedere dove c’è per lui un valore in quello che suggerisco io. Che è la cifra profonda della persuasione intesa come “portare valore”: far vedere agli altri non dove noi vediamo un valore per loro ma dove, guardando da dove stanno loro, possono guardare per vedere quel valore per sé che da soli non stanno riuscendo a vedere.
Per avere qualche possibilità in più di riuscirci, invece di insistere nel dire quanto (noi) stiamo bene dove stiamo sperando che venga loro voglia di raggiungerci, ci conviene stare almeno per un po’, con il nostro ascolto, nei “posti” dove stanno gli altri: come minimo ci aiuterà a vedere dove e come indicare loro perché guardino nella direzione di quello che noi vedevamo anche prima, ma loro no.
* Partner Newton Spa
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