Bonatti, il principe degli alpinisti che divenne fotoreporter d’avventura
Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi
di Dario Ceccarelli
7' di lettura
Se c'è un Mito che è difficile da restringere in una definizione, questo è Walter Bonatti. Appena ci provi, a incasellarlo, lui sguscia via lasciandoti senza parole. Si può dire che è stato un grandissimo alpinista, forse il più bravo. Ma non è tutto. Si può dire che è stato un formidabile esploratore, quando avventurarsi con zaino e scarponi in Alaska e in Amazzonia era davvero come scoprire un altro mondo, ma non è tutto.
Si può dire, molto estremizzando, che è stato un pioniere dell'ambientalismo, quando il comune sentire era solo quello di cementificare le foreste per costruire città e autostrade. Ma Bonatti si schermirebbe dicendo che lui, la natura, l'ha sempre rispettata a prescindere. E che tutto quello che ha fatto, come testimoniano i suoi libri e i suoi straordinari reportage, l'ha fatto solo per il gusto del rischio e dell'avventura.
Si può infine dire che è stato un uomo di granitica lealtà, quindi poco adatto a questi tempi molto disinvolti. Però Bonatti, cresciuto nel ruvido dopoguerra lombardo, la farebbe corta: «In montagna un errore è un errore. Non ci sono vie di mezzo. Un impegno è un impegno. Se vai in vetta, e il tuo compagno non ce la fa, prima lo aiuti e poi viene il resto».
L’Italia scopre l’alpinismo
C'è stato un decennio, a cavallo tra i Cinquanta e Sessanta, in cui l'alpinismo, proprio grazie a Bonatti, diventa popolare quasi come il calcio o il ciclismo. Giornali e telegiornali quasi sempre si domandano: che cosa sta facendo Bonatti? È vero che ha aperto una nuova via sulla parete Nord del Cervino? Ogni volta che si muove questo scalatore, nato il 22 giugno 1930 a Bergamo ma cresciuto nel Lecchese, tutta l'Italia va in fibrillazione temendo che si sia ributtato in qualche paurosa avventura. Gli ostacoli sono sempre formidabili. Crepacci che si aprono, seracchi che si sfaldano, tempeste di ghiaccio che si scatenano. Suo malgrado, Bonatti fa notizia. C'è perfino negli archivi una immagine di un giovane Emilio Fede che, dopo una di queste imprese lo corre a intervistare mentre l'alpinista scende dall'elicottero. Il più provato? Fede, naturalmente.
Giorgio Bocca, noto giornalista appassionato di montagna, dopo l'ennesima exploit di Bonatti, si diverte a descriverlo così: «Lo fa apposta? Sicuro che lo fa apposta. Lui ha deciso di essere la nostra coscienza ascetica. Aspetta che ci sediamo in poltrona con un sigaro in bocca e la tazzina di caffè sul tavolino, tutti belli nutriti, ingrassati, confortati e profumati, e poi ci compare dinanzi da un foglio di giornale con quel suo bel viso bruciato dal sole e dal freddo…».
Le radici in pianura, l’amore per la montagna
Pur amando le cime più inviolate, Bonatti viene dalla pianura. Le montagne, racconta, comincia a sognarle quando, sfollato per la guerra nel Piacentino, le scruta da lontano con le sue cime innevate. E il Resegone e la Grigna, alzandosi la nebbia, sembrano a portata di mano nel luminoso inverno lombardo .«Fu quella la scuola dei mie sogni. Un'altra è stata il Po: il fiume era il mio oceano, i sabbioni i grandi deserti. Quel che mi stava intorno , le foreste, era il mondo di Salgari, la giungla».
Anni duri quelli del dopoguerra. Angelo, il padre, ribelle al fascismo, è ancora senza lavoro. L'unico stipendio sicuro lo porta la madre, Agostina, magazziniera. Anche Walter lavora come operaio alla Falk di Sesto San Giovanni. Ma intanto comincia a far ginnastica in una società di Monza alternando la sbarra e le parallele alle escursioni in montagna.
«La mia carriera di alpinista - racconterà Bonatti - è cominciata a 18 anni alla Grignetta». Un tipo, che diventerà suo amico, lo vede incantato a guardare la cima e e gli chiede se vuole provare ad arrampicarsi. «Non desidero di meglio gli rispondo. Poi mi dà la corda e mi dice sicuro: “Ti porto io, andiamo sulla direttissima del Campaniletto”. L'unico problema è che il mio amico ad un certo punto si blocca dicendomi che gli scivolano le scarpe, che proprio non ce la fa. “Provaci tu che hai gli scarponi…”, mi dice. Mi guardo le mie povere scarpe da alpino, comprate usate al mercato, prendo l'abbrivio e vado su con il mio ritmo da ginnasta. Quando arrivo al chiodo gli passo la corda e lui allora mi fa: “Ma sai che vai proprio bene? Vai avanti tu!” E così son salito: alla fine ce l'ho fatta».
La sfida al Monte Bianco
Questa è l'alba di Walter Bonatti. Da queste montagne della sua adolescenza, comincia la sua salita verso i giganti del Monte Bianco. La prima nel 1951 scalando la parete Est del Grand Capucin, un obelisco di granito di 400 metri ritenuta ai limiti dell'impossibile. L ’anno dopo risalendo la cresta Sud de l'Aiguille Noire de Peuterey. E poi è un continuo crescendo. Ormai Bonatti si è fatto un nome. E infatti nel 1954 viene inserito, nonostante abbia solo 24 anni, nella spedizione italiana che conquisterà il K2: una vicenda contestata, e con un lunghissimo strascico di rivalità e polemiche, che segnerà per sempre lo scalatore bergamasco.
In questa spedizione guidata da Ardito Desio, Walter viene imbrigliato in una condizione di “soldato semplice” per la quale poi pagherà uno scotto enorme. L'ordine è perentorio: l'Italia deve farcela, costi quel che costi. Il K2 è un simbolo, la seconda montagna, del mondo (8617 metri) nel Gruppo del Karakorum. Però il prezzo sarà altissimo, soprattutto per Bonatti. Come racconta l'amico Reinhold Messner, suo ideale successore tra i grandi dell'alpinismo.
La spedizione sul K2
«Quello che ha sofferto Walter sul K2 è difficile immaginarlo», racconta. «Lui è salito a ottomila metri con un peso di oltre 20 chili per dare ai suoi compagni l'ossigeno per raggiungere la vetta. Bonatti deve pernottare a 30 gradi sotto zero perchè all'appuntamento Compagnoni e Lacedelli non si fanno trovare. Gli gridano nella bufera di lasciare le bombole. E loro si chiudono nella tenda, per riposarsi prima dell'ultimo sforzo. Il fatto incredibile è che al ritorno Bonatti sarà accusato di aver rubato l'ossigeno. Ma Walter non aveva neppure il respiratore», precisa Messner. «Dovrà passare una notte tremenda in una buca scavata nel ghiaccio con l'Hunza Mahdi che quasi impazzisce. La verità è che fu tutto malignamente orchestrato per enfatizzare la gloria di Ardito Desio che non dava diritto a nessuno di parlare…».
Ci vorranno oltre 50 anni prima che il Club alpino italiano abbia il coraggio di correggere la versione di Desio. Nessuno però, né Compagnoni, né Lacedelli, chiederà scusa a Bonatti che per avere giustizia scriverà una lettera anche al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Le ferite di Bonatti
Nonostante l'amarezza del K2, Bonatti firmerà altre imprese memorabili: dalla scalata del Pilastro del Dru (1955), forse la più ardita, ad altre spedizioni sempre sul Bianco in cui traccia altre tre vie. Quasi impossibile ricordarle tutte. Resta nella memoria collettiva il tragico tentativo al Pilone Centrale, il più alto d'Europa, quando solo 3 su 7 si salvano. Una vicenda che ha un'eco enorme e suscita feroci polemiche. Qualcuno accusa Bonatti di non aver fatto abbastanza per salvare i compagni ma altri, tra i quali i francesi e lo stesso Messner, lo difendono: «Se Walter non fosse sopravvissuto, tirandosi coi denti fino al rifugio, sarebbero morti tutti…».
Altro sale sulle ferite di Bonatti. «Ho visto le durezze della guerra. Ho visto in piazza Loreto a Milano Mussolini a testa in giù. Sapevo cos'era la cattiveria, ma ignoravo l'infamia…». La sua ultima impresa è nel 1964 quando apre una nuova via sulla parate Nord del Cervino. La realizza da solo, in inverno, con gli aerei che volteggiano sulla cima per festeggiarlo. È il suo ultimo lascito all'alpinismo che gli diventa sempre più stretto.
Fotoreporter per Epoca
Così, grazie anche al settimanale “Epoca”, che lo invia nei mondi più lontani per raccontarli in straordinari reportage, Bonatti diventa il Signore dell'Avventura. Va dovunque, con la sua macchina fotografica e un piccolo zaino: in Alaska, a Capo Horn, nelle Isole Vanuatu. E poi nei fiumi dell'Amazzonia e in Africa, nella savana dei Masai. I suoi racconti, un mix tra Hemingway e Melville, lasciano senza fiato milioni di lettori, soprattutto giovani, che imparano a conoscere dei luoghi ancora inesplorati. Sempre da solo, e senza armi, per dimostrare che si può convivere dovunque, anche con le fiere più feroci. Bonatti diventa un maestro del racconto fotografico. Scrive più di 20 libri, scatta migliaia di foto.
«Potevo dare materia ai miei sogni, vivere le avventure che sognavo da bambino e poi trasmetterle ad altri con articoli e fotografie». scriverà Bonatti che poi godrà anche di una inaspettata “terza vita”. Quella che si intreccia, in un curioso incrocio di destini, con l'attrice Rossana Podestà, conosciuta nel 1980 tramite una intervista uscita su un rotocalco. A una domanda del giornalista (con chi vorrebbe andar su un'isola deserta?) lei risponde senza dubbi: «Beh, con Walter Bonatti naturalmente».
L’incontro con Rossana Podestà
Dal desiderio alla realtà il passo è breve. I due, dopo una lettera di Bonatti («Ma è proprio vero?»), si incontrano a Roma vicino all'Altare della Patria. Non pratico della Capitale, Walter arriverà con due ore di ritardo quando Rossana stava ormai andandosene. Sarà l'unica volta, dopo sarà sempre puntuale. E infatti il loro sodalizio, fatto di viaggi e altri avventure per il mondo, durerà fino alla morte di Bonatti avvenuta il 13 settembre 2011 dopo una feroce malattia che lo ghermisce quasi all'improvviso in una clinica privata romana.
Non essendo sposati, e vietandolo la legge, Rossana non può neppure dargli conforto, tenergli una mano.
«Una cosa intollerabile che non potrò mai dimenticare e che credo possibile solo in Italia», racconterà l'attrice in lacrime. Un dolore troppo grande per un legame così profondo. Due anni dopo, il 10 dicembre 2013, lo seguirà anche lei. Ora riposano entrambi nel piccolo cimitero di Portovenere, sopra le rocce a picco sul mare.
secondo di una serie di articoli
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