Calo dell’export nel Far East, si salvano solo Venezia e Rovigo
I beni di consumo faticano a posizionarsi: la scelta per la vendita ExWorks incide in negativo Bazzoni (Camera di commercio): il percorso non è semplice né veloce le aziende devono impegnarsi
di Nicola Brillo
3' di lettura
Il mercato cinese (e del Far East) cerca la qualità e investe in qualità, tecnologia e sostenibilità, posizionando gli obiettivi di medio e lungo termine su importanti progetti di transizione energetica e decarbonizzazione. Un’opportunità per le aziende del Nordest, che non sempre in passato hanno sfruttato al meglio le potenzialità di un mercato formato da oltre 2 miliardi di persone. E di queste, circa 400 milioni, con un reddito superiore alla media italiana.
Dal 2016 al 2019 gli scambi in peso dal Nordest ed Emilia-Romagna e il Far East sono diminuiti, mentre quelli in valore sono aumentati. Se guardiamo i settori dell’interscambio delle quattro regioni italiane, la meccanica ha un saldo positivo per 616 milioni di euro, come l’automotive (+338 milioni) e biomedicale (+143 milioni), mentre per il tessile-moda il saldo è negativo per 842 milioni, così come nelle apparecchiature e strumentazioni (-715 milioni). Simone Padoan, advisor per l’internazionalizzazione verso la Cina (ChinaDesk.it) e membro della Camera di Commercio Italiana in Cina, anticipa alcuni dati della ricerca “Dal Nord Est al Far East”, che verrà resa pubblica prossimamente.
«Il Nordest non ha agganciato la crescita del Far East – spiega Padoan -. Se a partire dal 2016 le imprese venete avessero operato seguendo il trend dell’Emilia-Romagna, l’export nel 2019 sarebbe stato più alto in una forbice tra i 917,7 milioni, se consideriamo solo i mercati chiave, ed i 2,25 miliardi di euro in più. Se tutto il Nord Est esportasse nel Far East con la stessa proporzione tra export ed import che c’è con gli Stati Uniti, le esportazioni avrebbero dovuto essere 6,3 volte maggiori, per un importo di 107,2 miliardi (invece di circa 17), praticamente quanto esportato in Europa (107,1 miliardi)». Secondo le elaborazioni del Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina (CeSIF) risultano in crescita solo le province di Venezia (+28,07%) e Rovigo (+56,06%), che hanno esportato merci rispettivamente per oltre 100 milioni e quasi 28,5 in valore (si veda articolo sotto).
Mettendo poi in contrapposizione i due big territoriali, Veneto ed Emilia-Romagna, nei quattro anni risulta che nel primo aumenta l’import, ma non l’export, e il saldo passivo è in aumento. Mentre per Emilia-Romagna nello stesso periodo sono aumentati import ed export, con un saldo positivo. Il Veneto segna inoltre un degrado delle performance in tutti i settori chiave (meccanica, tessile-moda, automotive, farmaceutico e strumenti ed apparecchiature). Nella meccanica (produzione locale per il mercato locale) la presenza delle aziende emiliano-romagnole nel Far East è più che doppia rispetto a quella veneta, mentre nel tessile-moda il primato è veneto. Nell’automotive la presenza di entrambe è ridotta, come nel farmaceutico e forniture mediche.
«Affrontare il mercato dell’Asia orientale e della Cina richiede umiltà, preparazione, risorse umane ed innovazioni adeguate - scrive Paolo Bazzoni, presidente della Camera di Commercio Italiana in Cina nella prefazione della ricerca -. Il percorso non è semplice e nemmeno veloce. Le aziende devono impegnarsi a fondo nell’analizzare i loro punti di forza ed i loro limiti, devono capire come adattare la loro value proposition ed il loro business model ai mercati locali e devono costruirsi un business plan molto chiaro, finalizzato a servire le esigenze del mercato locale, integrandosi localmente anche da un punto di vista manageriale eventualmente con partner locali adeguatamente valutati e gestiti».
Ad oggi l’export nordestino dei beni i beni di consumo fatica a posizionarsi. E ad incidere negativamente è anche la scelta delle imprese per la vendita ExWorks (franco fabbrica) per circa il 70%. In questo modo, disinteressandosi dei canali distributivi, non si presidia adeguatamente l’accesso ai mercati di consumo. Un caso emblematico è il Prosecco, dove la quasi totalità degli esportatori predilige questa modalità. Il Prosecco incide per il 14,5% dei vini spumanti esportati in Cina dall’Italia, mentre la media verso il mondo è molto più alta, pari al 66,7%. Solo nel 2019, il Prosecco ha subito mancate vendite in Cina per 12,4 milioni, per concorrenza di altri venditori di vini spumanti italiani, che hanno aggredito il mercato in modo più dinamico e a prezzi molto bassi.
Per cambiare rotta occorre, suggerisce Padoan, avviare investimenti diretti per la realizzazione di piattaforme logistico-distributive in grado di aggregare le pmi e stabilire il controllo dei canali distributivi. Serve inoltre avviare programmi di cooperazione economica, con una governance pubblico-privata, che supporti lo sviluppo delle relazioni delle pmi sui canali “business to business” e “business to government”. «Un tema molto sentito nel Far East è la sicurezza alimentare, un mercato per l'industria e il know how italiano – conclude Padoan –. Ma dobbiamo andare lì, adeguandoci ai loro gusti, altrimenti lasciamo questo importantissimo settore alle aziende australiane».
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