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Civiltà delle macchine, 70 anni per gettare ponti tra le due culture

Se un merito va dato alle riviste aziendali, di sicuro sta nella capacità di mediazione tra i linguaggi, che rappresenta il lascito di quel progetto a cui si dà il nome di cultura politecnica.

di Giuseppe Lupo

3' di lettura

Se un merito va dato alle riviste aziendali, di sicuro sta nella capacità di mediazione tra i linguaggi, che rappresenta il lascito di quel progetto a cui si dà il nome di cultura politecnica. Ideate come esperimenti pubblicitari o fogli per la comunicazione interna, esse sono riuscite a diventare il luogo in cui idealmente tentare l’affascinante progetto di scambio e integrazione tra umanesimo e tecnica, sconfessando quel che in quegli stessi anni affermava Charles P. Snow nel suo celebre libro, intitolato Le due culture (1959). Ciò era possibile sia per l’altissima presenza di collaboratori che provenivano dal fronte dei creativi in senso lato (scrittori, poeti, artisti, architetti, pubblicitari), sia per la tipologia di argomenti affrontati che variavano da questioni squisitamente tecniche e settoriali ad articoli sulla letteratura, sull’arte, sull’architettura, sulla ricerca scientifica, su argomenti cioè che intendevano raccontare i fenomeni del moderno così come si andavano manifestando. Il vero obiettivo non era ospitare i letterati, piuttosto colmare il fossato che si era aperto tra loro e il mondo della scienza, dopo secoli di incomprensione, diciamo pure di incompatibilità, in cui la cultura ufficiale li aveva spronati a diffidare di tutto ciò che fosse al di fuori dell’orizzonte della filosofia e della letteratura. Osservando il panorama degli house organ (l’elenco completo è su www.houseorgan.net), un posto a sé lo occupa «Civiltà delle Macchine», la rivista della Finmeccanica, nata per impulso di poeta-ingegnere (Leonardo Sinisgalli) e di un manager-letterato (Giuseppe Eugenio Luraghi), di cui in questi giorni ricorre il settantesimo anniversario che sarà celebrato dalla Fondazione Leonardo con una manifestazione al Maxxi di Roma, il 13 febbraio. Tornata a vivere da qualche anno dopo un lungo silenzio, attualmente è affidata alla direzione di Marco Ferrante, che ne ha ripristinato lo spirito originario: essere il luogo di un dibattito sulle forme della civiltà contemporanea. Da questa esigenza, infatti, aveva preso le mosse nel lontano 1953, riuscendo a diventare il paradigma di un progetto culturale assai ambizioso. Sinisgalli era consapevole del ritardo che i letterati manifestavano nei confronti delle conquiste tecnologiche e, nell’impostare il programma, si pose l’obiettivo di ricucire lo strappo. «L’inverno del 1953 – ci ricorda egli stesso in un’intervista a Ferdinando Camon, che risale al 1965 – quando misi a fuoco il progetto di “Civiltà delle Macchine” [...] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza». Prima ancora che il saggio di Snow fosse tradotto in Italia, Sinisgalli individuava nell’immagine della «commistione» e dell’«innesto» (due termini che alludono certo alla mescolanza di sostanze, ma anche a delicate operazioni botaniche) il metodo attraverso cui favorire questo dialogo. Si trattava di operare lungo una direttrice che avrebbe minato il carattere dell’ortodossia intellettuale, optando per una contaminazione di temi e discipline, e nello stesso tempo avrebbe inaugurato un tentativo di rinnovamento, capace di sondare i segnali della modernità, inviando nelle fabbriche i poeti e i pittori con il compito di avvicinarsi alle macchine, forse per la prima volta. Si trattava di un azzardo. I poeti, per antica consuetudine, diffidavano dei mestieri pratici e, nel raccontarle, spesso li trattarono con incanto infantile. «Ospitando poeti e pittori nelle vostre officine – sottolineava ironicamente il pittore Domenico Cantatore in Impressioni di fonderia –, voi ingegneri, voi operai accogliete in certo modo dei bambini, i quali, anche di fronte a cose tanto serie come le vostre, giocheranno sempre con la fantasia» (marzo 1953). Le macchine entrarono comunque nella vita dei poeti e ne modificarono la mentalità. Lo spiega bene Giuseppe Ungaretti in una lettera inviata all’allora direttore: «Caro Sinisgalli, mi chiedi quali riflessioni mi vengono suggerite dal progresso moderno, irrefrenabile, della macchina. Tocca esso l’arte del poeta?» E la risposta non tardò ad arrivare: «La macchina racchiude in sé ritmo. Nella macchina s’attuano prodigi di metrica».

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