«Coach on the road», la formazione scopre il valore delle persone
Una nuova modalità che fa da collante unendo tra loro persone diverse per età, cultura, ceto sociale ed opinioni
di Giulio Xhaet *
3' di lettura
Nel periodo tra maggio e luglio 2022 il mondo della consulenza, della formazione e degli eventi ha ripreso a viaggiare. Parzialmente, in modo ibrido, ma si è rimesso gli zaini in spalla, afferrato le maniglie dei trolley ed è ripartito. Vuoi per incastri impossibili di agenda, vuoi per impegni pregressi, a fine giugno mi sono trovato in movimento perpetuo per qualche settimana, percorrendo senza sosta la penisola. Rispetto a due anni fa ho percepito una differenza nell'atteggiamento di molte persone. Sottili, ma evidenti. In questo periodo di “transizione incombente” individui di ogni le età covano intensamente il bisogno di capire dove stiano andando. E cercano qualcuno che più che parlare e sciorinare verità, le ascolti.
Dopo un po’, ho iniziato a pensare che il valore maggiore di ciò che stessi facendo non si trovasse più in ciò per cui ero pagato, ovvero condurre eventi e tenere corsi. O meglio, quelli erano inneschi per qualcos’altro: entrare nelle storie degli altri, fermarmi per ascoltare, e cercare di porre qualche domanda generativa con cui aprire sentieri di ragionamento condiviso su cosa volessero fare, essere e diventare.
“Si chiama coaching”, dirà qualcuno di voi.Sì, ma di un tipo particolare di cui non ho mai fatto esperienza: totalmente spontaneo, imprevedibile e non programmato. Votato alla serendipity. Innescato da uno sguardo, un mezzo sorriso abbozzato. Da un semplice “come stai?”, interessato sul serio a sapere come stai. È ibrido, onlife. Parte magari dai corridoi di un’aula di formazione, e si ritrova su WhatsApp via messaggi, vocali e videomessaggi. Oppure inizia con un messaggio privato su Instagram o LinkedIn, e si espande in altri ambienti, incontrandosi in 3D, magari per la prima volta.
È in movimento perpetuo, con storie di persone così diverse tra loro a farti compagnia nel vagone dei treni, ai check-in degli aeroporti, sui sedili dei taxi, palesandosi ogni tanto sotto forma di notifiche ed emoji. Ma anche abbracci fisici, e sì, qualche lacrima. È un coaching on the road, dove l’ansia fa rumore e l’avventura è nell’aria. Dove hai l’occasione di trovarti al centro di persone che se ti dedicano tempo per ascoltarti quando sei sul palco, soprattutto vorrebbero condividere loro delle esperienze e aspettative di vita.
Ovviamente l’arricchimento che ti porti a casa è immenso. Per questo, credo che oggi il metro del successo di un percorso di formazione o di un evento non dovrebbe essere valutato solo dai feedback dei partecipanti, ma anche dalla profondità e verità delle storie che i partecipanti decidono poi di condividere con te. Significa che si sono aperti, che hai sviluppato un contesto di fiducia, magari hai aggiunto qualche nota di speranza.
Un coaching on the road non conosce divari generazionali. È un collante che ti avvicina a persone molto più giovani o molto più vecchie di te. Che appartengono a ceti diversi, con una cultura differente, con opinioni lontane dalle tue. Un po’ come le passioni personali, le storie sincere di vita posseggono questo superpotere: polverizzano la polarizzazione delle opinioni.
Possiamo avere idee opposte sulla sostenibilità ambientale, sugli influencer, sul DDL Zan, sulle politiche europee. Ma in un coach on the road finiscono in secondo piano. I (pre)giudizi vengono appesi momentaneamente al muro, e al loro posto appare una persona, con le sue ferite, le sue paure, le sue bellezze.
Più di tutto, l'occasione nel mio caso è stata di assorbire il senso di vita di ragazze e ragazzi con 20 anni in meno, e donne e uomini con 20 anni in più. Tutti mi hanno insegnato qualcosa. Se siete un consulente, un formatore, un imprenditore, un manager che gestisce un team, appena possibile intraprendete un viaggio simile. Conoscete, frequentate persone più giovani, più anziane, e diverse da voi. Forse non è mai stato arricchente come oggi.
Addirittura, la vedo una medicina contro un male che incombe. Perché, parafrasando Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (film capolavoro di un geniale cineasta), abbiamo un’estrema urgenza di relazionarci agli altri, ma è come se ne fossimo meno capaci, come se vivessimo una sorta di analfabetismo di ritorno dei sentimenti. In un contesto del genere, che ci porta a percepire le ambizioni e i sogni come sotto anestesia, tuffarci nelle storie degli altri può aiutarci a ridefinire anche la nostra.
* Partner Newton SpA
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