Come trasformare i dipendenti in uscita in fedeli “Alumni”
Un errore troncare i rapporti con chi potrebbe trasformarsi in cliente, fornitore, ambassador o addirittura ritornare in azienda in futuro
di Francesca Contardi *
4' di lettura
Secondo alcune recenti ricerche di Microsoft, circa il 40% dei dipendenti sarebbe pronto, nei prossimi mesi, a cambiare lavoro. Questo fenomeno è in parte legato al periodo post Covid-19 e, in parte, alla ricerca di nuovi valori e di un migliore bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Tutte queste risorse in uscita rappresentano un problema per le aziende, ma anche una grande opportunità. Di solito, all’interno del mondo aziendale, si dedicano tantissime energie e risorse al processo di onboarding: si cerca di pianificare tutto nel dettaglio e di dare la migliore impressione di sé.
Quando invece una persona decide di lasciare la propria società la situazione cambia radicalmente: in alcuni casi (pochi) si dedica del tempo per una breve intervista, ma molto spesso si fanno compilare dei moduli e si danno chiare indicazioni per la restituzione dei vari benefit. E queste semplici attività solo riservate ai dipendenti con i quali i rapporti sono distesi perché, in caso contrario, il trattamento ricevuto da parte degli ex manager può essere molto duro e, in situazioni più estreme, chi lascia viene etichettato come traditore della propria azienda.
Questo approccio, nel medio-lungo periodo, può trasformarsi in un gravissimo errore. Le società di consulenza hanno in parte tracciato questo percorso circolare e hanno capito, già da qualche tempo, quanto sia importante mantenere dei buoni rapporti con i propri ex dipendenti. Perché? Il primo motivo è legato al fatto che molti - soprattutto se ricoprono ruoli apicali - potrebbero trasformarsi in clienti, fornitori, ambassador o addirittura ritornare come dipendenti in futuro. Una ricerca condotta nel 2019 da People Path e Cornell University ha dimostrato che più di un terzo degli ex dipendenti mantiene rapporti con la sua vecchia azienda come fornitore o cliente e che circa il 15% delle assunzioni arriva da reinserimento di ex dipendenti o persone da loro segnalate. In generale – se escludiamo i casi limite – il processo di uscita dovrebbe essere caratterizzato dagli stessi valori che le aziende raccontano in fase di assunzione.
Se, ad esempio, lo spirito di squadra è importante, perché deve essere trascurato quando una persona decide di affrontare nuove sfide professionali? Un gruppo può restare tale anche se qualcuno decide di andare via. E per una società è meglio gestire la dinamica di gruppo ibrido piuttosto che subirla in modo indiretto. Tutte le aziende hanno ex colleghi che si incontrano periodicamente e che mantengono tra loro buoni rapporti. E non c'è nulla di sbagliato o di negativo in questo.
Gestire efficacemente il processo di uscita di una risorsa può avere un considerevole impatto sull’idea che i dipendenti hanno della propria società e, in alcuni casi, può addirittura renderli più contenti di lavorare in un ambiente così evoluto. Il contrario può rendere, invece, l’ambiente più pesante e creare un clima timoroso e sospettoso, incrinando spesso i rapporti all'interno. I manager dovrebbero imparare ad ammettere che le persone, ad un certo punto della loro carriera, possano decidere di cambiare lavoro e che anche se tutti si augurano di collaborare a lungo, l'eventuale uscita di qualche componente di un team è un evento assolutamente plausibile. Riconoscere questo aspetto potrebbe rappresentare già un enorme passo in avanti per il management di una società.
Nel processo di onboarding così come viene raccontato come avverrà l’inserimento forse bisognerebbe già anticipare, a grandi linee, cosa può accadere in fase di uscita. Farlo in un momento di grande entusiasmo e durante il quale i rapporti sono eccellenti può aiutare a rendere meno personale e più pianificato il momento dell’uscita nell’attimo in cui accade.Questa trasparenza fa sì che la persona assunta sappia, sin dalla fase iniziale, che la società si aspetta che resti a bordo il più a lungo possibile, ma che è consapevole che le collaborazioni possono interrompersi e quindi che non ne farà una tragedia, ma anzi trasformerà questa eventualità in una opportunità per entrambi.
È come se il messaggio in ingresso di traducesse in “farò tutto il possibile per farti crescere e ottenere il percorso di carriera che tu desideri all’interno, ma qualora non fossimo in grado di farlo ti aiuteremo a fare in modo che questo accada altrove”. Questo atteggiamento ha dato vita ai cosiddetti programmi di Alumni implementati da alcune società. Alcuni sono davvero molto avanzati: non solo arruolano la persona in fase di assunzione, ma creano siti web dedicati, inviano newsletter periodiche, organizzano eventi sociali e spesso coinvolgono gli ex dipendenti in processi di continuous learning, sia come studenti sia come speaker. Altre società lasciano la possibilità agli ex dipendenti di accedere ai benefiti aziendali in forme scontate e/o privilegiate.
La creazione di programmi Alumni richiede tempo e risorse e spesso non viene percepito come un vantaggio immediato e monetizzabile nel breve periodo. Si tratta, infatti, di processi molto lunghi nei quali il management deve credere ed investire tempo ed energie. Ma il gioco vale la candela: la stessa ricerca di People Path e Cornell University ha dimostrato che le società che hanno questi programmi in funzione hanno un rating in Glassdoor superiore ai propri competitor del 16%.
* Managing Director di EasyHunters
loading...