Coro di voci per costruire un umanesimo industriale capace di farsi ascoltare
di Giuseppe Lupo
4' di lettura
Non è particolarmente gremito il panorama delle aziende italiane che nel cuore del Novecento, nel momento cioè di massima esplosione del mito industriale, possono vantare, come la Pirelli, un rapporto di osmosi con gli uomini di lettere. Pochi conoscono, per esempio, che nel 1947, in vista del 75° anniversario della fondazione della società, Alberto Moravia scrisse la sceneggiatura di un lungometraggio che aveva per titolo «Questa è la nostra città». Il film, affidato alla regia di Roberto Rossellini, rispondeva certamente a un obiettivo celebrativo, non a caso era stato Alberto Pirelli a commissionarlo, ma intendeva anche essere il racconto di una quotidianità vissuta a contatto con la fabbrica, in una vicenda dalle sfumature neorealiste, che si componeva di paesaggi in periferia, turni, sirene e poneva al centro della narrazione un nonno, un padre, un nipote, tre generazioni di una famiglia operaia. Il tempo della ricostruzione – era questo il messaggio subliminale – non poteva prescindere dalla civiltà delle macchine e nella corsa alla modernità che avrebbe trasformato per sempre un’Italia in bianco e nero, dando a Milano il primato di capitale industriale, tutti erano chiamati ad assumersi le proprie responsabilità, imprenditori e maestranze, tecnici e semplici apprendisti.
Il film di Moravia
«Al laminatoio il lavoro ferve» si legge in uno dei brani della sceneggiatura da cui trapela l’inedita cadenza di un Moravia stranamente affascinato dagli interni di un’officina. «Assistiamo a una colata del rame. Il ruscello incandescente scorre giù per i canali rosso e abbagliante e appena si fa filiforme, un operaio particolarmente abile l’afferra e lo solleva con delle pinze. Questo operaio è il padre Riva. Il suo volto s’illumina durante il lavoro, quasi che in esso gli sia dato di esprimere il meglio di sé e per esso di provare ignorati piaceri». Il testo è ora conservato negli archivi della Fondazione Pirelli insieme a un’infinità di altri documenti che costituiscono il ricchissimo patrimonio storico-identitario, studiato e valorizzato attraverso iniziative, mostre, cataloghi. Pur non diventando mai film, è una testimonianza del dialogo che l’azienda cercò e trovò con letterati, intellettuali, artisti, creativi, segno inconfondibile di una disponibilità a percorrere l’avventura di una cultura politecnica declinata secondo i caratteri tipicamente milanesi (e leonardeschi, si potrebbe aggiungere) del confronto tra i linguaggi. Osservando il lungo elenco di nomi e il tipo di incarico svolto, si capisce perfettamente che scrittori e poeti non stanno a contorno degli obiettivi aziendali, né svolgono un compito coreografico, ma sono una delle voci più ascoltate.
La voce degli intellettuali
Basterebbe pensare a una figura di manager perfettamente in linea con la cifra di questo umanesimo industriale: Giuseppe Eugenio Luraghi, uomo d’impresa, dirigente Pirelli tra la fine degli anni 30 e i primi anni 50, ma nel contempo scrittore in proprio, poeta, animatore delle Edizioni della Meridiana, organizzatore culturale. È lui, per esempio, a promuovere l’arrivo di Leonardo Sinisgalli, nel secondo dopoguerra, in veste di consulente per la pubblicità. Il duo Luraghi-Sinisgalli darà origine a numerose iniziative nello stesso periodo in cui Moravia si dedicava alla sceneggiatura del film: pubblicazioni periodiche, slogan per commercializzare prodotti di gomma, concorsi per manifesti che in giuria vantavano nomi d’eccezione come Montale, Maccari, Longanesi, Vergani. Qualche anno dopo aver lasciato il gruppo, Sinisgalli avrebbe ricostruito il clima di cooperazione con Luraghi in una spumeggiante paginetta che ha il sapore di un riassunto: «“Gl’italiani – mi disse – perdono l’ombrello e detestano la pioggia: scrivi una paginetta sugli impermeabili”. Mi disse ancora: “Abbiamo imbottito di gomma piuma le poltrone della Scala: pensa la sorpresa di Stendhal!” “Quanti bei versi hanno scritto i poeti sulle belle mani delle loro Muse! Facciamo una locandina per i guanti di gomma!” “Ho in mente – mi disse infine – una rivista a rotocalco per gli sportivi: facciamola con Tofanelli”. Intanto davanti alle facciate dei palazzi distrutti dai bombardamenti in piazza della Scala, in piazza Duomo, in piazzale Fiume, si alzarono cartelloni immensi che incitavano i pedoni a camminare Pirelli». Impermeabili, guanti, suole di scarpe, imbottiture per poltroncine da teatri – ma aggiungiamoci pure cavi, tubi, pneumatici dai nomi fantasiosi: Atlante, Stelvio, Rolle, Anteo – non sono semplicemente il frutto di una produzione da immettere nei mercati, piuttosto segnali di un artigianato che si faceva standard e mai come allora andava raccontato con le parole dei poeti e la matita dei pittori. «Se vi fanno male i calli, camminate Sinisgalli»: così Beniamino Dal Fabbro, capovolgendo in chiave parodica la celebre affiche di Ermanno Scopinich, «Camminate Pirelli», che nel 1948 tappezzò i muri di Milano. D’altra parte, in quello stesso 1948 prendeva avvio «Pirelli», uno degli house organ più importanti del dopoguerra, il primo forse a interpretare la funzione di coraggioso avamposto nella frontiera tra le “due culture”. Quel foglio, infatti, non esaudì soltanto criteri promozionali – raccontare le qualità tecniche dei battistrada, esaltare la bontà dei prodotti di gomma – ma creò ponti, favorì discussioni, regalò alla tecnica il vestito della bellezza, così come era nelle prerogative dell’editoriale d’apertura (uscito a firma di Alberto Pirelli, redatto però da suo figlio Giovanni, lo scrittore amico di Elio Vittorini), che conteneva questo pronunciamento: «Veniamo a conversare con voi». Conversare è la chiave fondamentale per interpretare il progresso tecnologico e la più convincente epopea del miracolo economico, quella meno intrisa da pregiudizi ideologici, transita di sicuro dalle pagine di questa rivista, rimasta viva fino al 1972 e con ospiti di gran riguardo: Dino Buzzati, Italo Calvino, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Eugenio Montale, Michele Prisco, Salvatore Quasimodo. Il paradosso è che negli anni di maggiore collaborazione con i letterati, il primogenito di Alberto, Giovanni appunto, l’uomo destinato alla guida del gruppo di famiglia, scelga di abbandonare la fabbrica per obbedire a una vocazione antiaziendale, destinata a fare di lui un cultore di letteratura e di storiografia. Il caso di quest’uomo è più unico che raro, una sorta di Novecento all’incontrario. Nonostante il suo allontanamento volontario, scrittori e poeti hanno continuato a prestare il loro talento alla Pirelli nel decennio che avrebbe introdotto il Paese nel periodo aureo del boom: Giancarlo Buzzi organizzando campagne pubblicitarie, Vittorio Sereni occupandosi dell’ufficio stampa. Buzzi vi avrebbe trovato la materia per uno dei primi romanzi sul neocapitalismo: Il senatore (1958). Sereni forse se ne sarebbe ricordato nei celebri versi della raccolta Gli strumenti umani (1965): «Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido / lontanissima una sirena di fabbrica».
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