Creatività e saper fare: il meglio dell’Italia sulle passerelle della couture
Esplosioni di alta visibilità e abiti semplicemente belli: da Armani a Valentino, poi Fendi, Schiaparelli e Valli, il racconto delle sfilate più preziose di Parigi
di Angelo Flaccavento
2' di lettura
La moda al momento appare divisa tra content creation e creazione vera e propria, tra intrattenimento virale e materialità del far vestiti. La settimana della haute couture parigina che si è chiusa il 26 gennaio ne ha offerta prova: esplosioni di alta visibilità e abiti semplicemente belli.
Sembra un commento sul teatrino del contemporaneo il ballo veneziano di Armani Privé, tutto gorgiere, luccichii, losanghe e consapevoli frivolezze. Armani è al meglio quando purifica e astrae, quando è lineare e lunare, ma il minuetto, seppur non del tutto riuscito, regala un istante di gioia. Pierpaolo Piccioli fa collidere il mondo di Valentino con quello del clubbing, i volant e i fiocchi con i look spericolati di Leigh Bowery (artista e drag queen australiano scomparso nel 1995, ndr), i pizzi con le plastiche dei nottambuli incalliti.
Lambisce territori perigliosi come il kitsch, il volgare anche; alla madame sostituisce la showgirl. Ma si ferma un istante prima della deflagrazione e il risultato è una scossa elettrica: una collezione che sovverte l’idea di grazia, sostituendola con una espressione tagliente, dura, che fa riflettere.
Da Schiaparelli, tre abiti iperrealisti ispirati alle belve dantesche diventano subito virali sul web, con l’immancabile corollario di polemiche surrettizie, ma il direttore creativo Daniel Roseberry convince di più quando opta per una lingua pura e scultorea. Giambattista Valli, sempre in bilico tra romanità ed esprit parigino, scala monumentale e rapidità cittadina, immagina momenti di godimento spensierato, dai colori vivi e tropicali.
Maria Grazia Chiuri, da Dior, si ispira a Josephine Baker, muovendo tra il camerino – vestaglie e lingerie – e lo stage – i flapper di perline – con tutto un carosello, a latere, di giacche impalpabili, tailleur impeccabili e vestine aggraziatissime. Celebra lo spettacolo come luogo di libertà, in una maniera sottile, quasi inapparente.
È immateriale e sussurrato, da Fendi, il tour intorno alle nozioni del fare, disfare, annodare, drappeggiare: basi del lavoro di atelier, che Kim Jones interpreta in chiave umanistico-futuristica. In uno spazio bianco, ovale e galattico, le dee di Jones paiono scese dall’astronave ma sono pronte per il Partenone, in un ruscellare di pieghe e panneggi che a tratti appare rigido, ma che non manca di gentilezza.
Il segno impresso da Virginie Viard sul mondo Chanel è chiaro: punta poco nella direzione della “moda” o di un look; piuttosto, gioca con i classici, rileggendoli in chiave transgenerazionale. È un approccio comprensibile, che certo non regala frisson ma che mantiene saldo il posto di Chanel nell’immaginario delle clienti. La collezione è leggera, svelta, tutta orli corti e trasparenze. Non trascina, ma non delude: è di una medietà poco autoriale, sempre che in maison con codici così forti importi l’autorialità.
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