Demoni nascosti nelle caverne e pronti a ridestarsi
Dura e tenace fu, nella cultura giuridica del nazionalsocialismo, la lotta contro i “paragrafi”, cioè contro la positiva letteralità delle norme
di Natalino Irti
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Dura e tenace fu, nella cultura giuridica del nazionalsocialismo, la lotta contro i “paragrafi”, cioè contro la positiva letteralità delle norme. Già nel punto 19 dell’originario programma nazista del 1920, un “diritto comunitario tedesco” veniva elevato ad antitesi dell’antico diritto romano. La “schiavitù dei paragrafi” (die Paragraphensklaverei), il vincolo linguistico e logico della legge, è rifiutata e combattuta nel segno di un diritto etnicamente puro, che nasce dal popolo tedesco e ad esso rimane legato nel suo cammino, dall’emanazione all’applicazione. “Il diritto è ciò che è utile al popolo”, dichiara Hans Frank, teorico ascoltato e temuto del nuovo indirizzo (ma ne resterà nome soltanto come crudele governatore generale di Polonia).
È un capitolo di storia del diritto, che si trova narrato, e spiegato con estremo scrupolo di filologia giuridica, nel saggio di Johann Chapoutot intorno a “La rivoluzione culturale nazista”. Ed è altresì una lezione, a noi impartita da anni cupi della storia europea.
I demoni non tacciono per sempre; si nascondono in caverne oscure e profonde; si ridestano minacciosi in abiti nuovi e seducenti. Il diritto dei paragrafi è diritto di libertà e di pace sociale. Di libertà, poiché definisce, nella conchiusa brevità di testi legislativi, le azioni vietate, e perciò insieme descrive l’immenso spazio del lecito, di ciò che il cittadino può fare senza timore di sanzioni. Quel divieto è come una piccola isola nel grande mare della libertà. E così ne nasce il bisogno e sentimento della sicurezza individuale, quale risuona, da ultimo, in talune pagine del fascinoso “Logiche follie”, dettate da Gabrio Forti e Silvano Petrosino. I “paragrafi” della legge disegnano la rigida mappa dell’illecito, da cui soltanto può emergere la “responsabilità personale” (enunciata nel solenne art. 27 della Costituzione). Sicurezza, come calcolabile definizione del vietato e del permesso, e responsabilità personale si tengono in vicendevole rapporto: sappiamo dove il fluire dell’esperienza incontra il no della legge, e dunque ha inizio la nostra responsabilità.
Si diceva poco sopra dei “paragrafi” come garanti di pace sociale. La forza letterale delle norme, la proprietà e secchezza linguistica, il preciso e netto disegno delle azioni vietate; insomma, tutti i caratteri, raccolti nell’idea di Stato di diritto e del “principio di legalità”, servono a costruire e intendere la funzione del giudice. Non siamo in uno Stato giurisdizionale, ma in uno Stato legislativo, dove – come detta l’art. 101 della Carta – “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Che è un esser soggetti ai “paragrafi” (di tutte le norme dell’ordinamento, e costituzionali e ordinarie). Umile e grande soggezione: umiltà, nel sapersi al servizio delle leggi, emanate secondo il metodo proprio del sistema e nell’osservanza delle prescritte procedure; orgoglio, nel darsi all’opera comune, al costruire e sorreggere l’abitazione della convivenza.
La “schiavitù dei paragrafi”, schernita e vilipesa dalla dottrina nazionalsocialista, si rivela così “libertà dei paragrafi”, ossia libertà, non consegnata all’estro inventivo o emotivo dei singoli giudicanti (fattisi, per superbia di carattere o albagia di casta, interpreti di sommi “valori” o eterni “principî”), ma al sobrio linguaggio delle leggi, alla nettezza delle “fattispecie” e degli schemi normativi. Linguaggio, che è patrimonio di tutti, ponte di unitiva comprensione tra i membri della società, interiore legame, onde possiamo dirci partecipi di una comune storia.
La battaglia contro i paragrafi è più difficile da scorgere e denunciare negli Stati democratici, dove può far mostra di “progressismo” giuridico e nascondersi dietro pontificali e abusivi schermi di “diritti innati” o “diritti umani”. Ma lo sguardo memore e vigile la scova e la dice per ciò che è: minaccia grave di sovvertimento linguistico e di arbitrio soggettivo.
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