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Disabilità o abilità diverse? Una questione di ambiente, relazioni, linguaggio

Occorre superare il rischio di agire in maniera paternalista, escludendo così la persona dalla scelta e dalla possibilità di migliorare

di Veronica Giovale *

(AFP)

3' di lettura

Federica è donna, ha 35 anni, è italiana, vive attualmente a Ginevra, ha uno stile relazionale prevalentemente introverso, non ha nessuna fede religiosa, non è sposata, per il momento non ha figli ed è eterosessuale. Queste sono solo alcune delle caratteristiche visibili e invisibili che costituiscono l’identità di questa persona. L'identità di ogni essere umano è quindi costituita da molteplici caratteristiche, alcune visibili, ovvero immediatamente riconoscibili quando avviene un’interazione, e altre invisibili.

Le prime sono quelle di cui possiamo renderci immediatamente conto quando entriamo in relazione con una persona, come ad esempio il genere, l’età, l'etnia, la salute psico-fisica e le abilità. Nel caso specifico di Federica è immediatamente visibile il fatto di appartenere alla generazione Y, di essere donna e sicuramente europea. Le caratteristiche invisibili emergono invece solo nel momento in cui due o più soggetti entrano in una relazione di fiducia, di rispetto e quindi di riconoscimento reciproco. In questa circostanza le persone iniziano a condividere quello che sono, fanno, desiderano e i rispettivi bisogni perché avvertono un ambiente nel quale si sentono libere, e quindi al sicuro, di poter esprimere le molteplici dimensioni che costituiscono la propria identità (la famosa sicurezza psicologica!).

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La disabilità, sempre più spesso definita con il termine abilità differenti, è una vera e propria caratteristica identitaria delle persone. Anch’essa può essere visibile o invisibile. Nel mondo 1,3 miliardi di persone hanno una disabilità. Le disabilità come le abilità sono molteplici. Si fa rifermento alle abilità/disabilità visive, uditive, cognitive, linguistiche, motorie e neurali. Le disabilità posso essere permanenti, temporanee ma anche situazionali. Una persona non vedente o senza un arto ha una disabilità permanente, una persona che si rompe una gamba o un braccio ha una disabilità temporanea, mentre una persona che entra in un bagno pubblico con un neonato e deve cambiarlo ma non trova il fasciatoio, ha una disabilità situazionale.

Edgar Morin diceva, “tutto quello che non si rigenera, degenera” ed ecco come il termine disabilità può acquisire una accezione profondamente differente, capace di aprire scenari inediti. La disabilità sino ad oggi è stata concepita come caratteristica intrinseca del soggetto, mentre possiamo concepirla in relazione all’ambiente e alle persone che interagiscono con il soggetto. Questa nuova chiave di lettura permette un salto di paradigma. La disabilità è quindi l’incapacità dell'ambiente e delle persone di soddisfare i bisogni di un soggetto che ha determinate caratteristiche.

Questa incapacità coincide con il fatto che gli ambienti e le persone non sono conformi ai bisogni che i diversi soggetti possono manifestare e quindi il mancato appagamento dei bisogni, oltre a generare un profondo senso di inadeguatezza, di fatto, rende impossibile lo scambio e l’interazione.

Un ulteriore esempio aiuta a far emergere la nuova prospettiva. Immaginiamo di essere persone non vedenti e di ricoprire un ruolo HR all’interno di una azienda. Se una delle mie caratteristiche identitarie è la cecità, diventa disabilità se, a parità di competenze con un professionista vedente, l’assegnazione dei mezzi con cui lavorare, come ad esempio il computer, soddisfano solo le necessità di una persona vedente. Se sono una persona non vedente avrò bisogno di un computer con delle caratteristiche coerenti alle mie abilità, ad esempio la sintesi vocale.

Un altro aspetto centrale che abbiamo bisogno di governare con maggiore consapevolezza e cura è il linguaggio con cui interagiamo con le persone con abilità diverse. Un breve excursus storico ci permette di riflettere sulle evoluzioni fatte e sul cammino, ancora lungo, da percorrere. Parole come minorato, storpio, infelice, menomato, offeso, subnormale, handicappato, disabile, diversamente abile sono alcuni dei termini che in passato sono stati utilizzati per definire le persone con disabilità. Gli atteggiamenti maggiormente diffusi verso la disabilità possono essere i più disparati, come il pietismo, la compassione, la prevaricazione, il disprezzo, l’ammirazione, la leggerezza, l’ironia e il bias di benevolenza.

Proprio su quest’ultimo, che si manifesta in tutte le relazioni umane, vorrei condividere una ultima riflessione. Il bias di benevolenza si manifesta nel momento in cui incontriamo una diversità che colleghiamo a una situazione di difficoltà e questo accade in molteplici situazioni lavorative e personali. In questo caso priviamo la persona, su cui esercitiamo inconsapevolmente questo giudizio, della possibilità di scegliere rispetto alla situazione che sta vivendo. Decidiamo noi al posto suo, senza interpellarla o limitiamo l’interazione per la paura di ferirla. Armati dalle migliori intenzioni, in realtà, stiamo agendo in maniera paternalista escludendo la persona dalla scelta e dalla possibilità di migliorare.

* Partner Newton SpA


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