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Diventare un'icona del neo-femminismo fra ricamo, neon e scultura

La 36enne britannica Zoë Buckman tesse con delicatezza potenti messaggi di dolore, lotta, emancipazione e guarigione. Opere che stimolano il dibattito pubblico.

di Rima Suqi

Zoë Buckman nella sua casa di New York. ©Weston Wells

5' di lettura

Una scultura neon rotante, che ra­ffigura un utero con un paio di guantoni da boxe in fibra di vetro al posto delle ovaie, illumina il tra­ffico della Sunset Strip, a West Hollywood. L'opera, dell'artista britannica basata a New York Zoë Buckman, si intitola Champ ed è stata installata poche settimane prima della cerimonia degli Oscar del 2018; ma dopo la recente decisione della Corte Suprema Usa di ribaltare la sentenza Roe contro Wade, la sua luce bianca brilla con nuova intensità.

Il nome di Zoë Buckman non è ancora molto noto. Se, però, gli ultimi anni possono gettar luce sul futuro, questa 36enne originaria del quartiere londinese di Hackney pare destinata a diventare una delle più importanti artiste femministe della sua generazione. I curatori ormai la citano insieme a Louise Bourgeois, Mary Kelly, Tracey Emin e Sophie Calle; i suoi lavori sono sempre più spesso inclusi in collettive con queste artiste, o con altre come Lorna Simpson e Carrie Mae Weems. Il Baltimore Museum of Art, lo Studio Museum di Harlem e il Chrysler Museum of Art di Norfolk, in Virginia, hanno acquistato alcune opere per le loro collezioni permanenti. In Italia, la sua Face to the Bricks fa parte della Collezione Genesi – a cui ha dato vita l'associazione omonima fondata da Letizia Moratti nel 2020 – incentrata su opere che hanno come tema i diritti umani.

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L'opera “Why don't you just tell me how you want to be, baby & i'll live like water around you” (2022).

Sempre nel 2020, i pezzi della sua personale Nomi sono stati venduti tutti, nonostante si sia svolta online a causa della pandemia. I prezzi, che vanno dai 4.600 ai 93mila euro circa, denotano il crescente interesse nei confronti dell'artista. Bloodwork, la sua ultima personale alla galleria Pippy Houldsworth di Londra (appena conclusa il primo ottobre scorso), ha lasciato il segno: ancora prima dell'inaugurazione erano fioccate le richieste da parte di musei e collezionisti privati. Al momento, e fi no al 6 novembre, alcuni suoi lavori sono esposti nella collettiva Another Justice - us is them, al Parrish Art Museum di Water Mill, nello stato di New York.

In questa immagine e sotto, work in progress nello studio di Buckman.

Come molte delle artiste che ama e alle quali viene paragonata, Buckman utilizza diverse tecniche, dal neon al ricamo, dalla scultura al video, creando opere che rappresentano esperienze personali e condivise di dolore, violenza, aborto, ed esplorano i temi dell'uguaglianza, della guarigione e del potere. I suoi messaggi sono crudi e diretti, confezionati in maniera ingannevolmente piacevole: si è attratti da un bel capo di lingerie vintage o da un pizzo delicato, e poi si viene spiazzati dalle parole che Buckman ci ha ricamato sopra. Una stoffa antica, per esempio, riporta la frase: It Stings, I Sob. Casey Fremont, direttore esecutivo dell'Art Production Fund che ha commissionato la scultura Champ, dice: «Dà voce e porta l'attenzione su tematiche di cui molte persone hanno paura di parlare. Li mette al centro del discorso pubblico».

Incontro Buckman nel suo studio, in un angolo del loft di Brooklyn dove vive con Cleo, la fi glia undicenne avuta insieme all'ex marito, l'attore David Schwimmer. Veste casual, con una canotta che lascia scoperto qualche tatuaggio. Alla parete sono appese alcune sue opere; dal so­tto pendono sculture (o “grappoli” come li chiama lei) di guantoni da boxe rivestiti di tessuto vintage. «Questa è sull'aborto», spiega indicandone una in diverse tonalità di rosa e rosso. «E quest'altra si intitola Dilation and Curettage. Anche se sono state ispirate da esperienze dolorose, sono belle. «Voglio che sia così», spiega. «Perché voglio parlare delle cose nella loro totalità. Ed esiste sempre questa dicotomia: all'interno di un'esperienza negativa, ce n'è una positiva».

“She was hungry & it was your work” (2022).

Dicotomia e contrasto sono parole che emergono di continuo quando si descrive il lavoro di Buckman. Una serie precedente, Every Curve, era composta di lingerie vintage su cui erano ricamati testi dei leggendari rapper Notorious BIG e Tupac Shakur, entrambi scomparsi, e includevano uno slip di seta con la scritta: You showed me the de­ nition of feminine, the di‑ erence between a pack of bitches and black women e un reggiseno che recitava: Bitches I like them brainless. Buckman usa il ricamo per riprendersi il potere: «Puoi tenere tutto sotto controllo, vedere dove hai commesso un errore e correggerlo in fretta». Ma per lei – spiega – è anche una certezza, una comodità: «Da un punto di vista pratico, va benissimo per una neomamma» e, aggiunge: «Quando volavo a Londra per occuparmi di mia madre in fin di vita, portavo con me un'opera, mi sedevo sul suo letto, le davo la morfina, chiacchieravamo, io ricamavo, lei mi aiutava a trovare un titolo per il pezzo e poi me lo stirava».

“Reckless seed” (2022).

La mostra Bloodwork è arrivata dopo un divorzio importante, due relazioni signifi cative, ma deludenti e la morte, nel 2019, della madre Jennie Buckman, che ha esercitato una forte influenza su tutto il clan familiare, composto da Zoë, suo fratello gemello Joshua, psicologo clinico, il regista Michael, il fratellastro Joe, che costruisce set cinematografi ci e teatrali. «Aveva la capacità di incoraggiare il talento», ricorda Michael parlando della madre, che dirigeva i corsi di recitazione alla Royal Academy of Dramatic Art (dove ha insegnato a personaggi come Daniel Craig, Tom Hiddleston e Sophie Okonedo) ed era anche una brava sceneggiatrice. Buckman, però, parla in termini positivi di ciò che le è capitato: «Mi sembra di aver iniziato a farmi guidare sempre più dal mio intuito, il che richiede tempo. Non sono mai stata così forte dal punto di vista emotivo... e questi sono decisamente i miei lavori più potenti».

Un pezzo della serie “Every Curve”, del 2016. © Jenna Bascom, courtesy of the Museum of Arts and Design

La mostra londinese includeva una serie di ritratti ricamati di donne che soffrono o sono in via di guarigione e danzano in maniera estatica; hanno le braccia alzate, le bocche aperte, le teste gettate all'indietro. «Anche se l'opera si intitola Bloodwork», dice Buckman riferendosi alla terminologia medica per “esami del sangue” «ed è, in effetti, disseminata di sangue, dolore e tutto il resto, non voglio che il pubblico provi dispiacere per me... La questione, piuttosto, è capire che cosa significa essere dentro questi corpi, che spesso vengono lasciati da soli a raccogliere i pezzi – da un punto di vista fisico, emotivo, spirituale, anche economico – e riescono comunque a guarire. Sì, nonostante le cose che ci succedono, noi guariamo. E siamo capaci di diffondere così tanta gioia e resilienza, di andare a una festa e scatenarci senza sosta con gli amici per tutta la notte».

Zoe Buckman al lavoro nel suo studio. © Weston Wells

Sempre a Londra è stata proiettata anche quella che Buckman ritiene essere, a oggi, la sua opera più significativa – Show Me Your Bruises, Then, una video installazione da lei scritta e diretta, prodotta da suo fratello Michael e filmata intorno al tavolo della madre, nella casa di famiglia. Nel fi lm, basato su una lunga poesia scritta da Buckman nel 2018 sul tema della violenza domestica attraverso diverse generazioni, recitano gli attori Cush Jumbo e Sienna Miller, oltre alla stessa Zoë. Il titolo si riferisce a una frase che le disse un fi danzato violento, ma le varie strofe esplorano anche le esperienze di altre donne della sua vita, inclusa la madre: «Mi ha commosso profondamente.

L'installazione neon “Champ” (2018). © BFA, courtesy of Zoë Buckman

Le parole erano forti, autentiche, senza alcun intento manipolatorio», racconta via mail Sienna Miller. «Zoë è incredibilmente poetica, il testo era un potentissimo flusso di coscienza. Mi ha conquistato». È stata Miller a convincere la riluttante Buckman a recitare nel video, sottolineando che: «È la sua storia. Nessuno avrebbe potuto raccontarla meglio di lei». Per l'artista – che sta per rendere nota una nuova commissione pubblica ed esporrà dal primo al 30 novembre l'installazione digitale Mended a Times Square, nell'ambito della rassegna Midnight Moment – è anche un modo per costringersi a uscire dalla propria comfort zone. «Il mio lavoro non si limita a dire delle cose. Cerco di creare opere che, almeno dal punto di vista visivo, avvicinino le persone al dibattito», afferma. «Possiamo influenzare il cambiamento molto di più coinvolgendo gli altri e creando spazi di discussione, che non urlando».

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