“Il mondo che verrà” / 5

Diventiamo fanatici della scienza

Per definire quello che stiamo vivendo usiamo parole come “guerra” o “arma”. Eppure quanto sta accadendo sembra il contrario di un conflitto bellico: per la prima volta nella storia dell'umanità siamo davvero tutti sulla stessa barca. Tutti da una parte, dall'India agli Stati Uniti, dall'Italia alle Filippine

di Elena Loewenthal

Nervi 2016 e Bosnia ed Erzegovina 2015. «Vorrei un mondo più libero», dice Nadia Moro, autore della foto

3' di lettura

La guerra è un'altra cosa. L'armamentario bellico come metafora del nostro “scontro” con il virus è stridente. Quella che stiamo vivendo a me sembra il contrario di una guerra: per la prima volta nella storia dell'umanità siamo davvero tutti sulla stessa barca. Nella stessa casa. Tutti da una parte, dall'India agli Stati Uniti, dall'Italia alle Filippine. C'è una sintonia nuova, nel dramma del Covid-19, quasi sorprendente. Dovremo, possiamo mettere a frutto questo universale sentire – tutto il mondo vuole sconfiggere il virus.

Non è una guerra, ma in fondo ha ragione anche mia madre. Classe 1932, ne ha viste davvero tante. Leggi razziali, guerra, persecuzioni. Trauma del post. E poi i meravigliosi anni Sessanta... «Quando c'era la guerra e stavo nascosta perché c'erano i tedeschi, il momento più bello della giornata era la sera, perché la sera andavo a dormire e pensavo: magari domattina mi sveglio e la guerra è finita». Ecco, le sere di reclusione sono state un po' così: piene di ansia, ma anche di una specie di speranza. Sere fatte di collegamenti video con figli sparpagliati per il mondo, da Parigi a Tel Aviv a Milano, sere a stupirsi della forza di questi giovani, della loro capacità di adattamento, di trovare vita ed energia anche fra le mura delle loro piccole case.

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Questo abbiamo imparato: che il mondo non è piccolo come ci sembrava prima che tutto questo cominciasse, quando saltavi comodamente su un aereo e non c'erano distanze insormontabili. Ora sappiamo che non è più così, che il mondo a volte è immenso, irraggiungibile. Ma è anche diventato più piccolo, perché abbiamo capito che siamo tutti sulla stessa barca, che ci sono destini comuni cui non si sfugge ed è una cosa molto bella, saperlo.

Altro che guerra, questo è il suo perfetto contrario. Non so se questo significhi diventare migliori, ma in fondo non è questo che importa. Che cosa vuole dire “migliori”, poi? Più impauriti, più rassegnati? No, non è questo il punto. Io vorrei che uscissimo con più fiducia nella scienza, perché la scienza è la cifra più alta della nostra mente. È la domanda incessante, è il dubbio che diventa ricerca di sé e del mondo, è lo sguardo intelligente sulla realtà. Vorrei che diventassimo tutti fanatici della scienza, d'ora in poi.

No, non è una guerra, il confronto con un virus, con il dolore e la paura. Eppure, la memoria aiuta. I nostri studenti, ad esempio. Chiusi in casa dalle restrizioni imposte perché l'isolamento è l'arma (accidenti, proprio non se ne può fare a meno, del lessico di guerra...) contro il virus. Nel 1938 gli studenti ebrei furono cacciati da tutte le scuole d'Italia, d'ogni ordine e grado. Allora le comunità ebraiche allestirono in fretta e furia delle scuole ebraiche, per sopperire. Ma anche tutti gli insegnanti ebrei erano stati espulsi da scuole e università.

Così, quegli studenti cacciati dai provvedimenti per la difesa della “razza” trovarono in cattedra docenti illustri, luminari. E quelle scuole divennero in molti casi istituti “di eccellenza”, come si direbbe oggi. L'emarginazione e la segregazione si trasformarono, per paradosso, in opportunità. Occasioni uniche.

Ecco, facciamo in modo che anche per questi ragazzi che da un giorno all'altro si sono ritrovati con una vita diversa, chiusi in casa, questa esperienza diventi un'opportunità. Di consapevolezza, fiducia, speranza.

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