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Donne in uscita dalla violenza: i diritti negati tra reddito, lavoro e casa

La denuncia di ActionAid: «L’indipendenza economica è la prima leva di libertà, ma gli strumenti di supporto sono ancora frammentari e insufficienti»

di Silvia Pagliuca

I punti chiave

  • Il reddito di libertà e le misure di sostegno
  • Le misure per l'occupazione
  • Il supporto abitativo

6' di lettura

La fila è lunghissima, conta 3.283 teste. Sono tutte in coda per un nuovo inizio. Ma solo in 600 riusciranno ad arrivare alla meta. Ecco i numeri che fotografano l’ennesima ferita inferta ai danni delle donne vittime di violenza. In questo caso, a colpire, è l’occasione mancata del reddito di libertà nazionale, la misura introdotta dal Parlamento italiano sull’esempio di quanto già fatto da alcune Regioni (la Sardegna è stata la prima) per rispondere ai bisogni economici delle donne in fuoriuscita da violenza.

Secondo i dati pubblicati dall’Inps, all’11 luglio 2022, appena 600 donne hanno beneficiato delle risorse disponibili, ma le richiedenti sono state cinque volte tante (3.283, appunto). Del resto, la misura è finanziata con una quota complessiva di 12 milioni di euro per il periodo 2020-2022 e pensata per una platea di massimo 2.500 donne. Anche se le potenziali beneficiare sarebbero circa 21 mila l’anno (elaborazione dati Istat).

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ActionAid lancia la provocazione e in vista della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il prossimo 25 novembre, nel report “Diritti in bilico” (realizzato con focus group, workshop e interviste che hanno coinvolto circa 100 rappresentanti di strutture di accoglienza, servizi territoriali ed enti pubblici) mette in fila dati e numeri che raccontano una storia fatta di misure in buona parte positive negli auspici, ma inefficienti o inorganiche nei fatti.

Fondi scarsi e di difficile accesso

Dal 2015 al 2022, per supportare le donne nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, sono stati spesi complessivamente 157 milioni di euro (ovvero 54 euro circa al mese per donna non autonoma economicamente), di cui: 20 milioni per misure di sostegno al reddito, 124 milioni per interventi di re/inserimento lavorativo e 12 milioni di euro per favorire l’autonomia abitativa. Fondi scarsi a cui spesso le donne non riescono ad accedere per problemi burocratici (non possono, ad esempio, produrre una dichiarazione Isee separata da quella del maltrattante).

«Se le istituzioni non assicurano alle donne, spesso madri, diritti fondamentali come il reddito, il lavoro e la casa, queste corrono il rischio di fare ritorno dagli autori di violenza, vanificando il loro percorso verso l'autonomia. Quanto tempo ancora le migliaia e migliaia di donne che hanno subito violenza dovranno aspettare? Al Governo chiediamo per l’ennesima volta di adottare politiche integrate e strutturali coinvolgendo tutti i Ministeri e gli uffici competenti. È questa l’unica via possibile affinché le donne possano affrancarsi con successo dalla violenza e affermare la loro libertà» denuncia Isabella Orfano, esperta ActionAid.

Le vite congelate

Ogni anno sono circa 50mila le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. Nei primi 11 mesi del 2022, sono state uccise 94 donne in Italia, comunica il Viminale, di cui 82 assassinate in ambito familiare. Tra queste, 48 sono state vittime dei loro stessi compagni o ex partner.

«La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale, profondamente radicato, riguardante l’intera società. Per questo, servono politiche e interventi che vadano a incidere su ogni aspetto della vita sociale, culturale, politica ed economica dell’Italia, da Nord a Sud, dal centro alle periferie» si legge nel Rapporto di ActionAid che ha lanciato anche la campagna #FreeNotFreezed.

Il simbolo è una statua di ghiaccio, dallo sguardo coraggioso e proteso in avanti verso il futuro, che rappresenta metaforicamente tutte le donne che si sono liberate dalla violenza ma che sono rimaste congelate dalla politica. Se lo Stato, infatti, non dà sufficienti garanzie di reinserimento alle donne in fuoriuscita dalla violenza, il percorso di affermazione della loro libertà può rimanere bloccato.

Quello che manca nel supporto al reddito

Nonostante il Reddito di Libertà sia stato salutato in prima battuta con ottimismo, sia dalle beneficiarie che dalle strutture antiviolenza, a conti fatti, molte sono le lacune. Anzitutto, lo stanziamento complessivo annuale non è in grado di coprire i bisogni della potenziale platea di beneficiarie.

Poi, alcuni criteri, come l’obbligo di residenza, risultano discriminanti, non solo per le donne senza fissa dimora o straniere, ma anche per coloro la cui residenza coincide con quella del maltrattante. Inoltre, non essendo state adottate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti, la valutazione è a tutti gli effetti discrezionale.

Infine, l’importo mensile del contributo previsto - 400 euro pro capite per un massimo di 12 mesi - è a dir poco esiguo. Tutto, fuorchè uno strumento capace di garantire indipendenza economica. Eppure, come ricorda Istat, il 37% delle donne che hanno intrapreso un percorso di fuoriuscita dalla violenza nel 2020 ha dichiarato di aver subito violenza economica.

Le donne assistite dai centri antiviolenza non finanziariamente autonome – nello stesso anno – sono state il 60,5%. Il tema della vulnerabilità economica, infatti, è molto esteso e interessa soprattutto le più giovani: la quota sale al 70% per chi ha dai 18 a 29 anni. Gli strumenti di potenziamento economico -finanziario, sono quindi fondamentali: «Generalmente si fa ricorso a misure nazionali e regionali di contrasto alla povertà, come il reddito di cittadinanza e il reddito di dignità, o di supporto alle famiglie in difficoltà, come il bonus per l’affitto. Sono però strumenti limitati, frammentari e inadeguati» - denuncia ActionAid.

Le misure per l’occupazione

Oltre al reddito, è indispensabile agire sul re/inserimento lavorativo e sul mantenimento dell’occupazione. Le donne occupate in forma stabile, infatti, hanno una maggiore autonomia economica (95%) rispetto a chi svolge un’attività lavorativa saltuaria (51%) o non ha un lavoro (15,7%). A oggi, per favorire l’inserimento lavorativo sono stati finanziati in maniera disorganica, generalmente a livello regionale, percorsi di formazione professionale, tirocini, attività di avvio all’autoimprenditorialità, a cui si sono aggiunti gli sgravi contributivi per le imprese, mentre per garantire il mantenimento dell’occupazione sono stati introdotti il congedo indennizzato per donne vittime di violenza di genere e il ricollocamento per le dipendenti pubbliche. Vediamoli in ordine.

L’Italia ha destinato circa 34,8 milioni di euro annui alle amministrazioni regionali per realizzare attività di re/inserimento lavorativo. Tutto ciò però ha messo in evidenza ampie disparità: ci sono Regioni che hanno introdotto specifiche disposizioni per le politiche attive e altre che invece si sono limitate a delegare le attività di orientamento alle strutture antiviolenza. Il risultato, per le donne, è stato un accesso «a geografie variabili».

Per promuovere l’avvio di un’attività lavorativa autonoma, invece, è stato istituito il Fondo di garanzia per il microcredito di libertà, con un finanziamento da 3 milioni di euro. Essendo diventato operativo solo ad aprile 2022, non vi sono al momento dati disponibili. Come ricorda Action Aid, però, avviare un’impresa richiede oltre ad adeguate conoscenze di tipo manageriale, anche capacità e competenze personali che, a seguito della situazione vissuta, spesso necessitano di essere rafforzate. Per questo, sarebbe utile proporre corsi di alfabetizzazione finanziaria, formazione specialistica, servizi di tutoraggio e assistenza tecnica personalizzata e continuativa.

Sul fronte del mantenimento dell’occupazione, invece, le risorse stanziate tra il 2016 e il 2022 ammontano a 89,2 milioni di euro: fondi usati esclusivamente per finanziare il congedo indennizzato (stanziati in media circa 12 milioni annui), una misura che dà diritto alla donna che ha subito violenza, inserita in percorsi di protezione certificati, di astenersi dal lavoro per un periodo massimo di 90 giorni. Anche in questo caso, una misura migliorabile: l’astensione prevista è infatti molto riduttiva, dato che secondo Istat, nel 2019, la permanenza media nelle case di accoglienza è stata di 137 giorni. Inoltre, dall’introduzione del congedo a oggi, è stato registrato un notevole aumento delle domande presentate (da 50 nel 2016 a 1.331 nel 2021), a cui non è seguita una crescita delle domande accolte.

Nel 2021, infatti, solo il 32% delle domande presentate è stato accettato (432 a fronte delle 1.331). Un’altra importante misura introdotta è la possibilità per le lavoratrici pubbliche prese in carico da strutture antiviolenza di essere trasferite in un altro ufficio ubicato in un comune diverso da quello di residenza. Ma al momento non viene previsto alcun supporto economico e le spese di trasferimento, per queste donne, sono spesso inaffrontabili. Complessivamente, quindi, anche queste misure presentano diverse lacune: «Oltre a essere scarsamente finanziati, gli interventi per favorire la ricerca o il mantenimento dell’occupazione risultano ancora poco rispondenti alle esigenze delle donne che hanno subito violenza. È necessario partire dalla mappatura dei bisogni per garantire loro un adeguato sostegno» - continua ActionAid.

La casa che non c'è: l'importanza dell'autonomia abitativa

Infine, altrettanto vulnerabile è il tema dell’abitare. Le donne vittime di violenza hanno una probabilità quattro volte superiore rispetto alle donne in generale di vivere situazioni di disagio abitativo. Chi deve ricostruire la propria vita spesso ha difficoltà nel pagamento dell’affitto o della rata del mutuo, è costretta a traslochi frequenti, subisce sfratti o si trova a dover vivere in alloggi sovraffollati, insieme ai figli.

Le istituzioni nazionali e regionali hanno stanziato per il periodo 2015-2022 circa 12 milioni di euro per erogare contributi per la copertura di caparre, canoni d’affitto e pagamento di utenze. Si tratta di interventi ritenuti ancora una volta «insufficienti per risorse e tempi di erogazione». «Ciò che chiediamo è di andare oltre la frammentarietà degli interventi, ripartire dalle norme e definire linee guida comuni, ripensando i sistemi di finanziamento attivati fino a ora» - conclude ActionAid. Solo così, le donne che vogliono uscire dalla violenza, spesso dimenticate e invisibili, potranno sentirsi davvero libere. Per riprendere, finalmente, in mano la vita.


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