È stato un grande interprete della modernità ma non ha avuto cantori letterari
L’Avvocato nell’immaginario popolare
di Giuseppe Lupo
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Vent’anni fa, in occasione della morte di Gianni Agnelli, rimanemmo tutti stupiti di fronte alle riprese televisive, che trasmettevano il passaggio del feretro tra due ali di folla commossa. Chi era presente, quel giorno, non soltanto rendeva omaggio a una figura che aveva condizionato nel bene e nel male una lunga stagione di immigrazione e di integrazione, recitando un ruolo determinante nello slittamento da un’Italia contadina a potenza industriale, ma continuava a sentirsi parte di un progetto: la Fiat, appunto, il mito dell’impresa solida e inossidabile, la grande fabbrica nazional-popolare, che magari si proponeva con un’impronta sabauda, severa e gerarchica, ma conservava quell’aspetto “populista” del provvedere ai bisogni dei propri dipendenti, rischiando perfino di dare un’immagine paternalista.
Gianni Agnelli era il condensato di questi sentimenti, un personaggio a più facce. Si dava per scontato che fosse al centro della mondanità internazionale eppure non lo si poteva pensare lontano dagli uffici di via Nizza, a Torino, fuori dall’orizzonte che disegnavano i nomi entrati di forza nel lessico più autentico dell’operaismo sindacale: Rivalta, Mirafiori, Togliattigrad (faceva impressione sapere che nell’Unione Sovietica ci fosse uno stabilimento Fiat nella città intitolata a Palmiro Togliatti). Di sicuro era uno dei protagonisti del boom economico, che nel suo caso si manifestava con il proliferare della rete autostradale, con il diffondersi delle utilitarie, non le auto di lusso, ma quelle a dimensione domestica: la Cinquecento, la Seicento. Alla sua impresa facevano capo i sogni medi di un automobilista italiano: non lo spaccone Vittorio Gassman che nel Sorpasso (1962) viaggia in Lancia Aurelia, ma l’impiegato ministeriale Alberto Sordi che in Un borghese piccolo piccolo (1977) sta al volante di una 500 giardiniera. E Gianni Agnelli corrispondeva a quei sogni medi con la caratteristica altezzosità del principe che si concede alle folle di un medioevo ripiantato nel cuore della civiltà industriale, capace di garantire a migliaia di individui alle sue dipendenze che le sorti economiche della Fiat avanzassero in parallelo con quelle della più anonima famiglia operaia a cui la grande fabbrica elargiva lo stipendio. Tra i volti ripresi dalle telecamere, il giorno dei funerali, c’erano di sicuro ex dipendenti in pensione ed ex sindacalisti, figli di immigrati e impiegati ancora in attività, mogli di fattorini e di colletti bianchi, tutti lì, come una plebe desiderosa di non perdersi l’occasione per rendere omaggio a una figura tutt’altro che periferica nel gran teatro della modernità, un interprete di alto rango che aveva imposto un suo stile al Paese – l’orologio sul polsino, l’abito gessato scuro, la battuta graffiante accompagnata da un accenno di risata, le partite allo stadio Comunale, le regate nei mari della Costa Smeralda – e a cui gran parte del Paese, in quel momento, restituiva un misto di ammirazione, riconoscenza e anche un po’ di invidia.
A guardare bene (e con fantasia) non è escluso che tra le ali del corteo ci fossero anche i personaggi usciti dai testi narrativi, dove l’azienda della famiglia Agnelli si stagliava sullo sfondo, decentrata come un’ombra, retoricamente protettiva o vagamente minacciosa: da Gymkhana-cross di Luigi Davì (1957) a Marcovaldo di Italo Calvino (1963), da Vogliamo tutto di Nanni Balestrini (1971) fino a La collera (2010) di Andrea Di Consoli, scritture afferenti a epoche e sensibilità diverse, capaci però di cogliere un lato del poliedro che è stata la Fiat nel Novecento. In mezzo a quella gente non potevano mancare soprattutto i volti anonimi ma di sognante eloquenza, che popolavano la memorabile inchiesta di Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino (1964), indagine assai più accreditata rispetto alle precedenti Operai del Nord (1957) di Edio Vallini e a Inchiesta alla Fiat (1958) di Giampiero Carocci per interpretare i fenomeni antropologici maturati intorno all’Avvocato, alla sua famiglia, all’industria che aveva avuto la sua prima sede al Lingotto, alla Torino delle foto in bianconero come le maglie della Juventus. Ricordare i vent’anni della morte di Gianni Agnelli equivale, dunque, a riepilogare un pezzo di storia che appartiene al Paese, rappresentativa di una certa maniera di vivere il legame tra impresa privata ed economia di Stato, eppure rimasta ai margini della letteratura novecentesca.
Su questo tema i conti non tornano. Su Gianni Agnelli e la sua azienda, nonostante siano stati al centro delle rotte industrial-politiche del secolo scorso, nonostante l’influenza, e l’indubbio fascino esercitato, non esistono romanzi che ne contengano il racconto, sia nei tratti di una saga familiare, sia in quelli di un’epopea individuale. Eppure la materia tanto pubblica quanto privata non manca. Chiedersi come mai si sia accumulato questo lungo silenzio obbliga a riflettere su cosa possegga o non possegga le qualità per entrare nell’immaginario culturale di una letteratura che pure ha narrato le trasformazioni del Paese. È fuor di dubbio che un romanzo costruito sul modello dei Buddenbrook manchi non solo a proposito degli Agnelli, ma anche, per esempio, dei Pirelli, degli Olivetti, dei Falck. E ciò dimostra una vera e propria carenza strutturale che in Italia coinvolge il genere del romanzo borghese. Ciò non basta a giustificare il vuoto, a spiegare la lacuna. È probabile che la risposta si trovi nei caratteri fondativi della nazione, nel suo nutrire diffidenza sia nei confronti di chi raggiunge l’apice del potere, sia verso chi manifesta il successo (e lo ostenta, lo cavalca) come un esercizio di bravura e di soddisfazione. Siamo un popolo che simpatizza per l’outsider (perché l’outsider forse ci rassomiglia), ammira le storie dei deboli e degli sconfitti perché muovono a commozione più delle vicende di successo e perfino nella commedia dell’arte la maschera di Arlecchino la spunta su quella di Pantalone. Scelta nobile, non c’è dubbio, scelta coerente con il nostro carattere latino e mediterraneo, ma così facendo ci siamo persi l’altra metà del mondo.
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