Fermi tutti
Perfino le mete low cost possono tornare a essere esotici luoghi letterari. Ovvero, perché leggere libridi viaggio in un'epoca in cui si viaggia pochissimo
di Guido De Franceschi
4' di lettura
Nella produzione libraria esiste – fin dai tempi di Erodoto – un settore merceologico che ha a che fare con l'altrove geografico. Sì, “l'altrove geografico” è una brutta espressione fumosa, i cui contorni sono smangiati dall'imbarazzo di averla scritta nel tentativo un po' goffo di indicare quell'ampia categoria bibliografica che include – insieme ai reportage e ai diari di viaggio e agli atlanti letterari e alle guide d'autore – anche molti altri libri che non sono nati per raccontare un posto a chi vive lontano da quel posto, ma che, una volta che sono diventati un prodotto da esportazione grazie alle traduzioni, hanno assunto quella allure di esotismo che li rende assimilabili a un racconto di viaggio – e questa è una cosa che può accadere sia a una raccolta di articoli giornalistici sul Midwest sia a un romanzo poliziesco turco con un'ambientazione ben disegnata.
Da qualche tempo, Iperborea propone The Passenger, un periodico che non si capisce se sia una rivista che sembra un libro o un libro che sembra una rivista, ma che rappresenta molto bene, con parole e immagini avvolte in uno splendido involucro grafico, questo tipo di scrittura. La definizione del Passenger offerta dall'editore – «inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un Paese e dei suoi abitanti» – dimostra peraltro che, per spiegare un concetto un po' sfuggente, non serve ricorrere a orrori come “altrove geografico”. E, in ogni caso, il Passenger, che talvolta è dedicato a un Paese e talvolta a una città è ogni volta un piccolo bestseller.
Eppure qualcosa è cambiato. Per 2.500 anni, i libri che formano il ritratto della vita contemporanea di un Paese, di una città e dei suoi abitanti (promesso: non scriveremo mai più “altrove geografico”) si sono rivolti quasi esclusivamente a lettori che mai avrebbero visto i luoghi di cui quei libri parlavano. Invece, ormai da qualche decennio, i libri di questo tipo si rivolgevano, in quota crescente, a persone che quei luoghi li avrebbero presto visti, o che perlomeno avrebbero potuto vederli se soltanto avessero acquistato il biglietto di un volo low cost, o che addirittura li avevano già visti e volevano rivisitarli almeno su carta.
Infatti, se si escludono alcune mete davvero molto costose, la logora formula retorica del “viaggiare da fermi grazie a un libro” era ormai ammissibile soltanto nel caso in cui, del tutto comprensibilmente, si fosse scelto di leggere “in luogo fresco e asciutto” di esperienze che, se vissute anche in prima persona, avrebbero comportato il disagio di disseccarsi nel deserto del Gobi o di sciogliersi in una strada di Hanoi, trafitti da inaccettabili valori igrometrici. E infatti, da anni, i libri che formano il ritratto della vita contemporanea di un Paese, di una città e dei suoi abitanti si compravano soprattutto quando un viaggio lo si stava pianificando, o comunque lo si aveva già lì, a galleggiare sull'orizzonte dei propri desideri realizzabili.
Ma invece no. Ecco che da otto mesi ci sentiamo di nuovo tutti come si sentiva nel 1798 il grande naturalista, esploratore e scrittore Alexander von Humboldt: «Era esasperato. Con le tasche piene di soldi e la testa piena delle più aggiornate conoscenze scientifiche e tuttavia ancora incapace di viaggiare. Guerra e politica, diceva, bloccavano tutto, “il mondo è chiuso”», (così lo descrive Andrea Wulff nella sua biografia L'invenzione della natura pubblicata dalla Luiss University Press).
Ora, forse non abbiamo le tasche piene di soldi (ma oggi viaggiare è molto più economico), e a “chiudere il mondo”, almeno per noi occidentali, non sono le guerre e la politica, ma è un virus. Il risultato però è lo stesso. E quindi? E quindi escono lo stesso molti libri belli che raccontano posti che, almeno per ora, sono di nuovo inaccessibili come lo erano stati, quasi per tutti, per millenni. Qualcuno, per voltolarsi fino in fondo in questo straniamento, potrebbe percorrere una versione ultranerd delle strade impossibili già battute da Omero, da Luciano di Samosata e da Dante, procurandosi una copia di Virtual Cities. An Atlas & Exploration of Video Game Cities di Konstantinos Dimopoulos (Unbound).
Per chi ha più a cuore la realtà ci sono invece, scegliendo tra i libri usciti nella neo-immobilità, Tokyo tutto l'anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli di Laura Imai Messina (Einaudi). Oppure La Senna. Storia e mito di Elaine Sciolino (Guanda), che rinnova una tradizione di libri sui fiumi che risale a La Mosella di Ausonio. Oppure,
per chi cerca i risvolti meno pacificanti della vita di un Paese, i reportage belli e terribili di Eliane Brum che nella raccolta Le vite che nessuno vede (Sellerio) racconta il suo Brasile, anzi, «i Brasili», come dice l'autrice (e, no, niente spiagge).
Oppure ancora, il resoconto di un'esperienza estrema come quella dell'austriaca Christiane Ritter che, in un libro del 1938 appena riproposto in italiano da Keller con il titolo Una donna nella notte polare, racconta un anno passato con suo marito in un'isola delle Svalbard – leggetelo, anche voi che non avete mai amato il nature writing: è un libro splendido e indimenticabile, in cui una scrittura di scintillante semplicità vince su tutto e sostituisce ogni possibile trama. Che poi, ammettiamolo: da anni, le nostre Lonely Planet tornavano dai viaggi stralette e ciancicate, mentre le “letture d'autore” rincasavano spesso seminuove e con il segnalibro impaludato a pagina 21.
Chissà che ora invece, in questo momento di ritrovata “distanza” tra i luoghi di cui parlano i libri e i luoghi in cui quei libri sono letti, questi stessi libri non riescano a riscattarsi dal ruolo di ancelle velleitarie della guida turistica a cui li avevamo consegnati.
loading...