Ficre Ghebreyesus: il Van Gogh degli altipiani
Alla Frieze Los Angeles l'arte apolide dell'artista-cuoco di Asmara
di Riccardo Piaggio
2' di lettura
Tra i protagonisti della più blasonata Art Fair al mondo, la Frieze (120 gallerie da 22 Paesi, nelle sale all'Aeroporto di Santa Monica), è stato idealmente presente uno degli artisti più détournants degli anni 2000, che per qualche ragione collezionisti e curatori (due dei tre pilastri dell'arte contemporanea, insieme alle Gallerie) non hanno ancora deciso di rendere iconico.
La vita di Ficre Ghebreyesus (1962-2012), peintre per vocazione, come si usava nell'epoca delle avanguardie, avvolge luoghi, mondi e relazioni molto distanti dai tormenti patinati di molti creativi contemporanei. Artista binario, figurativo e astratto, ha vissuto l'esperienza drammatica del rifugiato apolide, si è cimentato come cuoco (molto apprezzato) a New Haven e poi New York, si è specializzato alla prestigiosa Yale School of Arts, passando per la fotografia e lo yoga. Di lui non si sa molto, fuori dai soliti circuiti, ma il suo viaggio solitario merita ascolto e attenzione.
Eritreo apolide
Diverso da tutti, ma dotato di una straordinaria capacità di sintesi stilistica e soprattutto poetica, riassume in ogni sua opera l'innocenza e la sua perdita, entrambe dovute alla sua storia di eritreo apolide. Con le sue tele, espressive fino a diventare tridimensionali, è un artista che potrebbe fare la differenza, proprio ora che non c'è più, nel magma del mainstream sempre più minimalista e astratto dell'arte contemporanea. Lo ha celebrato la 59a Biennale di Venezia con un'opera di oltre 1metro e ottanta per cinque metri e sessanta (City with a River Running Through).
Ghebreyesus non è stato un militante, piuttosto un testimone di mondi che ha sperimentato, raccolto e poi raccontato in opere naïve in cui sono i colori a tracciare la trama narrativa. Verde, giallo, blu e rosso, i colori dell'Africa e quelli dell'America, raccolti in morbide geometrie che sembrano consentire alle astrazioni dell'artista di uscire dalla tela.
L'aspetto più interessante dell’opera di Ghebreyesus è quello compositivo e narrativo, prima ancora che pittorico; in tutte le sue opere sono evidenti i richiami alle tradizioni visive copto-ortodossa, islamica e pure marxista del suo Paese di origine. La tela diventa l'iper-fotografia di un mondo (quello post-coloniale delle dittature, della violenza, della miseria) non meno iper-reale.
Un Basquiat, o forse un Van Gogh, degli altipiani (Asmara, dove è nato, galleggia a 2.300 mt, oltre la quota media di una stazioni sciistica), cresciuto nell'estetica dell'orrore. Ma le sue opere trasmettono pochissima inquietudine e nessuna angoscia; inquietudine sì, molta, alla ricerca di un paradiso perduto che forse non ha trovato nemmeno in America e che ha scelto di confinare nel perimetro controllabile dei suoi affreschi.
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