Flessibilità e work life balance: virtù che verranno meno nel “new normal”?
Secondo un’indagine YouGov per Linkedin, il 36% delle aziende a livello mondiale ha già programmato una riduzione delle modalità di lavoro ibride
di Gianni Rusconi
4' di lettura
La pandemia di Covid 19 ha segnato in modo evidente dinamiche di business e modelli organizzativi per almeno due anni. Oggi le priorità del management, al cospetto di un’incertezza economica che ha trovato nuove fonti (conflitto ucraino e crisi energetica) per alimentarsi e perdurare, non sono più le stesse e condizionano in qualche modo le “conquiste” in ambito lavorativo maturate in precedenza in fatto di skill development, wellbeing dei dipendenti e flessibilità.
Lo dice una recente indagine condotta lo scorso ottobre da YouGov per conto di LinkedIn su un campione di circa 3mila dirigenti appartenenti alla cosiddetta “C-Suite” di diversi Paesi del mondo, Italia compresa.
I leader aziendali, questo il messaggio di fondo dello studio, sono chiamati a compiere scelte difficili in relazione al fatto che stanno emergendo alcune aree di preoccupazione in seno all’organizzazione. Le rispondenze emerse su scala globale confermano per esempio come gli investimenti in termini di nuove assunzioni, formazione e benefit per i dipendenti sono a forte rischio di ridimensionamento, tanto che in Italia un terzo delle imprese ha già rivisto al ribasso i propri piani per l’ampliamento dell’organico (il dato in Europa si ferma al 29%) e una su quattro le ha completamente bloccate.
Il 27% delle aziende della Penisola, percentuale che supera di due punti la media europea, ha inoltre già ridotto anche i fondi allocati per l’aggiornamento professionale e per la creazione di nuove opportunità di carriera per la propria forza lavoro.
Analizzando nello specifico il quadro italiano, si evidenziano anche alcune contraddizioni, soprattutto per quanto riguarda la visione del management rispetto alla maggiore flessibilità operativa e alle modalità di lavoro ibride e da remoto: mentre il 71% dei C-level intervistati si dice convinto che tali consuetudini affermatesi nel periodo pandemico siano destinate a rimanere valide nel tempo, il 60% si dice preoccupato per una loro probabile riduzione e per le conseguenti ricadute negative sull’equilibrio tra vita professionale e privata e sulla motivazione dei propri addetti.
Il 36% delle aziende è già passato dalle parole ai fatti e ha già programmato una riduzione delle modalità di lavoro flessibili e ibride mentre una percentuale pressoché identifica dei C-level (il 35%) conferma come nella propria azienda i dipendenti stiano chiedendo supporto finanziario a fronte dell’aumento del costo della vita.
La necessità di rispondere alle difficoltà contingenti ha quindi indotto molti leader aziendali a definire nuove priorità: per il 44% dei manager oggetto di indagine è fondamentale essere preparati dal punto di vista finanziario per i tempi difficili che ci attendono, il 46% si dichiara preoccupato per lo stress legato al caro vita a cui sono sottoposti i lavoratori e il 40% conferma come in cima alla lista degli interventi a cui pensare vi sia la riduzione del consumo energetico aziendale in un’ottica di risparmio sui costi.
Per il 29% dei dirigenti, invece, il “task” più importante è la necessità di garantire la crescita professionale dei propri dipendenti attraverso il miglioramento delle competenze ed attività mirate di reskilling. Ciò che desta preoccupazione, in generale, è l’emergere di una potenziale (e pericolosa) dissonanza dovuta al mancato allineamento tra le convinzioni di top management e datori di lavoro e le sensazioni e feedback espressi dai talenti e dalle persone che si vogliono trattenere in azienda.
Un altro rapporto di LinkedIn (il “Global Talent Trends”), ci dice in proposito come le attuali priorità dei dipendenti, oltre alla retribuzione, siano per l’appunto flessibilità, sviluppo delle competenze ed equilibrio tra lavoro e vita privata.
Un’altra questione sul tavolo di una buona fetta (il 60%) dei C-level italiani, infine, è la possibilità che a causa della crisi aumenti ulteriormente il divario di competenze tra i lavoratori, anche per la richiesta di percorsi di formazione specifici. Per oltre la metà degli addetti intervistati, infatti, sarà ancora più importante possedere un titolo universitario per trovare opportunità professionali ed è una percezione, questa, che ha un peso particolarmente importante in Italia, dove la disoccupazione giovanile e il basso numero di laureati costituiscono handicap strutturali e radicati, ancora prima del manifestarsi della pandemia e dell’attuale stato di incertezza economica.
A quali risorse possono dunque appellarsi i manager per affrontare il nuovo scenario post pandemico? Capacità di comunicare, problem solving, trasparenza ed empatia sono le soft skill ritenute più importanti, a conferma del fatto che, in un percorso pieno di ostacoli, il bisogno di figure con competenze trasversali sia particolarmente sentito e non a caso trovi riscontro nel 78% delle offerte di lavoro pubblicate a livello globale su LinkedIn negli ultimi tre mesi.
Oggi nel mondo, si legge ancora nella nota che accompagna il rapporto, solo il 44% dei datori di lavoro incoraggia la collaborazione e la condivisione delle conoscenze tra i dipendenti, ma creare legami con i colleghi e puntare sullo sviluppo di nuove competenze è fondamentale per un ambiente di lavoro stimolante e inclusivo. Un ambiente dove coltivare talento, rafforzare la cultura aziendale ed aumentare la resilienza dell’organizzazione rispetto a un mondo, a un “new normal”, in rapida evoluzione.
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