Fuga dal lavoro: dalla Great Resignation al Great Burnout
Occorre intervenire in modo sistemico per rendere l’ambiente lavorativo più inclusivo, sostenibile e di supporto all’apprendimento individuale
di Francesca Contardi *
3' di lettura
Secondo alcune recenti ricerche di Mc Kinsey, più di due terzi degli HR Director di aziende mediamente strutturate avrebbero messo in piedi programmi di wellbeing che si concretizzano, nella maggior parte dei casi, in corsi di yoga, meditazione, giorni liberi da passare in famiglia e tantissimo training per gestire il business. A cosa servono? In primo luogo per cercare di ridurre lo stress e scongiurare il pericolo, sempre più impellente dopo l’arrivo della Covid-19, di burnout. Un problema molto serio sul piano emotivo, fisico e mentale che, secondo l’Oms potrebbe davvero riguardare chiunque.
A settembre 2021 un articolo del Time ha dipinto un quadro terribilmente preoccupante: un aumento quasi del doppio di persone colpite dal burnout, con un incremento considerevole di donne rispetto agli uomini. Il fenomeno è talmente in crescita che in questo momento si sta parlando del passaggio dalla Great Resignation al Great Burnout, con un numero considerevole di lavoratori che sta lasciando il proprio posto senza neanche avere un’alternativa già pronta.
Nel nostro Paese questo trend è abbastanza recente e si è concretizzato notevolmente con la pandemia, ma negli Stati Uniti - dove il tasso di disoccupazione in alcune aree e per alcuni profili è prossimo allo zero - è veramente molto, molto vicino a rappresentare la normalità. In Italia sembrava quasi impossibile che qualcuno lasciasse il posto fisso senza avere un'altra proposta certa, eppure i casi si stanno moltiplicando anche da noi.
Alla luce di questi fatti, dunque, viene da chiedersi se tutte queste attività di wellbeing, certamente lodevoli nel loro intento, rappresentino soltanto un cerotto per una ferita decisamente più grande. Recentemente ho letto una ricerca condotta dalla Wharton School di Philadelphia nella quale si dice che i dipendenti citino tra le maggiori fonti di stress le giornate lavorative che potenzialmente potrebbero durare 24 ore e 7 giorni su 7, con richieste costanti da parte dei manager e risorse sempre più scarse.
Mi sembra chiaro che questi problemi non si possano risolvere con un corso di yoga o con una giornata da dedicare ai propri hobby, alla famiglia o agli amici. Il rischio è che le aziende sopravvalutino questi programmi e sottovalutino, invece, le reali motivazioni che portano i dipendenti ad elevati livelli di stress.
Il lavoro ha un ruolo cruciale nel preservare la salute mentale, il benessere, l’impegno e le prestazioni dei dipendenti, ma molti tendono a trascurare questo aspetto. Le conseguenze, però, sono tutt’altro che marginali poiché il costo della sostituzione di un dipendente non è irrisorio, anzi. Pensiamo al costo di una nuova selezione, al tempo per trovare la risorsa giusta o al periodo di formazione necessario. Si rischia di restare scoperti magari per alcuni mesi e questo si traduce nella perdita di opportunità e di fatturato. Intervenire in anticipo è probabilmente la soluzione migliore.
La maggior parte dei dipendenti che decide di lasciare il proprio posto di lavoro dichiara di farlo a causa di un ambiente tossico. Combatterlo non è certo una sfida facile da affrontare perché, purtroppo, non basta semplicemente imparare ad essere più resilienti. Certo, chi lo è riesce ad affrontare difficoltà e cambiamenti con un approccio più proattivo e positivo, ma non è certamente sufficiente per compensare la negatività.
I manager devono intervenire in modo sistemico alla base e rendere l’ambiente lavorativo più inclusivo, sostenibile e di supporto all’apprendimento individuale di tutte le risorse, leader, manager e profili senior compresi. E questo, purtroppo, non si risolve solo con un corso di meditazione.
* Senior Vice President Nelson and Washington Frank Usa
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