Gigi Riva, campione schivo e fedele dal sinistro fulminante
Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi
di Dario Ceccarelli
7' di lettura
Non è questione di nostalgia. Puoi dire Messi. O anche Maradona. Ricordare Paolo Rossi, Marco Van Basten o Roberto Baggio. Anche Mbappè o Neymar. Puoi elencare tutti i Signori del gol, ma ce n'è uno davanti al quale stanno tutti sull’attenti. Silenzio assoluto. Rispetto totale. Non ha vinto tanto, e neppure cambiato troppe squadre. Anzi, è sempre rimasto legato alla stessa bandiera, quasi che lasciarla fosse un tradimento, qualcosa che deviasse dalla sua missione di bomber ad alta fedeltà.
Mancino inarrestabile
Un caratteraccio, per dirla tutta. Eppure che stile! Che coraggio! Che classe! Un piede solo, certo, ma a Gigi Riva, il sinistro bastava e avanzava. E ancora adesso, quando in qualche vecchio filmato, lo si vede calciare con quell'eleganza che nasce imparata, non puoi che dire: quello, amici, è stato davvero un grande. Un grande di cui si è perso lo stampino.
Eccolo il Mito, allo stato puro. Il suo nome è Gigi Riva, classe 1944, di Leggiuno in provincia di Varese, sponda lombarda del Lago Maggiore. Nato in tempo di guerra, quando la notte era più buia, e tutto poteva ancora succedere. Ma anche dopo la guerra, per quel ragazzino magro come un chiodo, i guai non finiscono mai. La situazione precipita nel febbraio del 1953, quando papà Ugo, operaio in fonderia, muore per un tumore ai polmoni. Unico maschio dopo tre sorelle, Gigi finirà in collegio perché mamma Edis, sempre a faticare per far quadrare le spese, non riesce a star dietro a quel monello che ha sempre in testa il pallone. “Con la scomparsa di mio padre, finì bruscamente la stagione dell'infanzia” racconterà il futuro bomber in un bel libro (“Gigi Riva, mi chiamavano Rombo di Tuono” scritto con Gigi Garanzini per Rizzoli).
Le origini umili e difficili
“Finì la stagione dell'infanzia e come se non bastasse cominciarono pure, da subito, gli anni di galera. Li chiamo così per due ragioni. La prima è che pur trattandosi di orfanotrofi, erano in pratica delle prigioni per bambini indigenti, cui le famiglie, o quel che restava, non erano in grado di provvedere. La seconda è che scappai tante di quelle volte, che ne ho perso il conto, pur sapendo bene dopo la prima volta che mi avrebbero ripreso…”.
Per capire Gigi Riva, il suo carattere fiero e schivo, bisogna partire da questo doloroso grumo di rabbia e povertà. Diciamo che per reciderlo, ammesso che ci sia riuscito, ha dovuto imparare in fretta l’arte di arrangiarsi. E il calcio è stata la chiave che gli ha permesso di uscire da una gabbia di soffocante solitudine. Prima al campetto della parrocchia di San Primo, quindi nei tornei estivi in notturna con i ragazzi dell'oratorio. A volte anche tre partite per sera con pochi soldi ma tanti premi in natura. Uova, formaggi, salumi che vanno a riempire la magra dispensa familiare. «Ma tutta questa roba l'avrai mica rubata?» lo rimprovera sua madre, incredula davanti a tanto ben di Dio. Più avanti, quando Gigi debutterà in Serie C col Legnano, per vederla contenta le regalerà un bel televisore. Uno grande, con le manopolone e un'antenna che svetta sui tetti sul paese. Una gioia effimera però, perché mamma Edis morirà pochi mesi dopo. Un altro duro trauma, per il ragazzo, solo parzialmente compensato dai primi successi calcistici.
Il debutto in serie C con il Legnano
Le cose cominciano a girare. Il Legnano, oltre a un piccolo appartamento e un abbonamento ferroviario, gli dà 37mila lire al mese. Niente di che, ma per Gigi è invece tanta roba. È soprattutto la sensazione d'aver svoltato. Di non dover più alternare, prima in una fabbrica di ascensori poi come meccanico automobilistico, il lavoro al calcio. Nel 1963, il 13 marzo, debutta all'Olimpico con la nazionale juniores contro la Spagna. E qui si decide di nuovo il suo destino.
L’approdo (definitivo) al Cagliari
Quel mancino dal tiro forte come una sassata, piace ad Arrica, il general manager del Cagliari. Nell'intervallo, prima che Gigi realizzi il gol del 3-2, l'affare viene concluso per 37 milioni e una stretta di mano. A fine partita si fa avanti anche il Bologna con 50 milioni. Troppo tardi, il destino di Riva è inesorabilmente legato a quello della Sardegna.
«Non volevo andarci», confesserà poi Gigi. «Mi sembrava una nuova deportazione. In realtà ho accettato per sfuggire a una gioventù insopportabilmente infelice». Questa è l'alba di Gigi Riva, detto anche “Giggirriva “e “Rombo di Tuono”, come lo soprannominerà il maestro Gianni Brera in una delle sue fulminanti definizioni.
Parlando di Riva, 247 reti in 441 partite, inevitabilmente si incrociano altri miti, anche quelli del giornalismo sportivo, illustri colleghi che hanno avuto modo di familiarizzare con quel bomber dal sinistro facile e dalla parola difficile. Diciamo che con Riva la fiducia è una cosa che va guadagnata sul campo. Nella ristretta lista, oltre a Sandro Ciotti e Maurizio Barendson, spunta anche un giovane Gianni Mura (“cronista scrupoloso, non certo di quelli che orecchiano poi te la tirano a tradimento”, il primo a intervistare Gigi quando si ruppe la gamba col Portogallo e che, anni dopo, lo definirà ”Hombre Vertical”, per rendere omaggio non solo al campione ma anche all'uomo rimasto sempre coerente ai suoi principi).
Il legame con la Sardegna
Riva viene da lontano. Come quei fiumi che, magri alla foce, diventano maestosi strada facendo. Tre sono gli snodi della sua vita da bomber. Il primo, decisivo, il sodalizio col Cagliari, che porterà, oltre all'indimenticabile scudetto del 1969-70, anche a saldare per sempre il suo legame con la Sardegna. Un legame reciproco perché i sardi, come scrive Brera, “vedevano in lui il campione, l'eletto che doveva riscattarli di fronte a una storia matrigna”. Quello scudetto, conquistato con un gruppo straordinario (Albertosi, Niccolai, Brugnera, Cera, Domenghini, Bobo Gori, Nenè…) che meriterebbero uno spazio ben più ampio, è un evento nazionale che trascende il calcio, perché ottenuto ai danni delle arroganti potenze calcistiche del Nord. Quella Sardegna, di cui Gigi diventa il simbolo, era una regione profondamente povera, isolata, umiliata. Quello scudetto, strappato con le unghie e i gol del suo bomber, vale come mille riconoscimenti, mille piani di investimenti, mille marce sindacali. Gli ultimi che diventano primi, dopo aver lottato contro un intero continente che li chiamava “pecorai”.
Ci sono tutti dietro quel tricolore: pescatori, minatori, pastori. Perfino i banditi, perché il più famoso di essi, Graziano Mesina, era un tifoso accanito di Riva a cui, lo si saprà più tardi, inviava lettere di incoraggiamento e sostegno con comprensibile imbarazzo del destinatario. Anche con Fabrizio De Andrè ci fu un incontro. Un contatto tra due sardi d'adozione, taciturni che pur stimandosi reciprocamente non sanno cosa dirsi. Fabrizio gli regalò una delle sue chitarre finita poi chissà dove.
Di quel Cagliari impossibile non ricordare Manlio Scopigno, l'allenatore “filosofo” dalle battute fulminanti. «Guarda che io, prima di essere tuo allenatore, sono tuo amico…» furono le sue parole al primo incontro con Gigi. Due pianeti, con lo stesso fuso orario, che si allinearono all'istante.
I molti “no”
Un altro snodo, legato alla Sardegna e al sua carattere spigoloso , è quello dei “no”. Riva ne ha detti tanti. Alcuni clamorosi. Disse no a Franco Zeffirelli che per 400 milioni di lire voleva fargli interpretare San Francesco nel film “Fratello sole e sorella luna”. Era una cifra, ma non per Gigi, che ringraziando rispose che fare l'attore non era il suo mestiere. Il secondo “no”, ancora più clamoroso, fu quello rivolto alla Juventus dell'Avvocato Agnelli e del presidente Giampiero Boniperti che al Cagliari, per Riva, offriva 2 miliardi di lire, più Bettega, Gentile e Cuccureddu. Non fu facile dire quel no. Perché la Juventus era la Juventus e Gigi il capocannoniere del campionato e della nazionale (35 reti in 42 partite, record ancora imbattuto). Ma Riva fu irremovibile. In una intervista all''Europeo dirà: «Questo non è più calcio, è un sistema del quale faccio parte, non so come cambiarlo, ma so come difendermi. Loro mi vendono? Alla fine decido io. Io contro altri sei? Non mi sento di valere tanto. E mi vergogno per chi ha fatto queste valutazioni…».
La Nazionale
Il terzo snodo è il suo attaccamento alla nazionale, per lui importante quanto il Cagliari. Tanto che più avanti dal 1987 al 2013, è stato anche dirigente accompagnatore della comitiva azzurra. Era disposto a tutto, Gigi, per quella maglia, e non solo a sacrificare le gambe (ebbe due gravi infortuni, una volta col Portogallo nel 1967, un'altra contro l'Austria a Vienna nell'ottobre del 1970.) Riva però non se ne lamentò mai, ribadendo che «se uno deve tirare indietro la gamba tanto vale, allora, non scendere nemmeno in campo…».
Con la maglia azzurra Gigi ha conquistato il titolo europeo battendo la Jugoslavia all'Olimpico il 10 giugno 1968. La prima finale era finita 1-1 ma siccome i rigori non erano previsti si rigiocò due sere dopo. Riva, reduce, da un infortunio, partì subito da titolare. E dopo 12 minuti firmò la prima rete. Il raddoppio, splendido, fu di Anastasi. E tutto l'Olimpico, trionfante, si accese in una fiaccolata spontanea. Con la nazionale, Gigi arrivò anche secondo ai Mondiali di Messico '70. Quelli della famosa semifinale con la Germania finita 4-3 per l'Italia ai supplementari. Riva realizza il terzo gol, quel diagonale sinistro che, lento ma inesorabile, si deposita nell'angolino opposto della porta di Mayer.
Un mondiale non brillante, però. L'altura lo condiziona, gli fa martellare il cuore e mancare il fiato. E anche nella finale col Brasile (finita 4-1) Gigi, affaticato dalla maratona con la Germania, non giocò al massimo. Come tutti gli altri azzurri. Sulla famosa “staffetta”, divenuta un caso di stato, Riva ha le idee chiare: «Oggi auguro a chiunque di avere a disposizione un Rivera e un Mazzola: sono certo che due campioni così giocherebbero entrambi».
La vecchiaia in Sardegna
Eccoci al presente. Riva vive ancora in Sardegna dove, compatibilmente con le ruggini degli anni (78) e degli infortuni, sta bene. Ha una bella famiglia: la moglie Gianna, e due figli, Nicola e Mauro che gli hanno regalato una tribù di nipoti che lo fa sentire un amato patriarca, a volte dolce, a volte scorbutico. Non è un grande chiacchierone, lo ammette lui stesso. E ogni tanto, quando riappaiono i fantasmi della depressione, deve mettersi da parte, lontano da tutti. Quei fantasmi, sono vecchi compagni di viaggio. Dice che sono avversari brutti da affrontare, ma che ha imparato a conviverci. Dice che gli manca un po' la nazionale. Soprattutto far da chioccia a quei giovani talenti cui, ogni tanto, si spegne la luce. Come capitava a lui, o a Roberto Baggio, uno dei suoi preferiti. Sul calcio attuale, dice che avrebbe tante cose da puntualizzare, a partire da quelle panchine troppe lunghe che proprio non gli piacciono. Ma a lui piace di più il silenzio. O una canzone di De Andrè. O il fruscio delle rete, quando il pallone s'insacca.
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