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Poseidone ha ottimi motivi per essere irritato con l'umanità. I mari del futuro saranno più caldi, più sporchi, più acidi, meno ossigenati e più vuoti di quelli di oggi. La Giornata mondiale degli oceani è una buona occasione per considerare le conseguenze dell'emergenza climatica e ambientale su questi immensi ecosistemi, che coprono il 70% della superficie terrestre e sono determinanti per la sopravvivenza della specie umana.
Gli oceani assorbono il 90% del calore in eccesso trattenuto dai gas serra e la loro temperatura media è aumentata di quasi 1 grado centigrado rispetto al periodo pre-industriale, con medie record di oltre 21 °C, che hanno molto allarmato gli esperti, registrate a partire da aprile .
Ma non solo. Gli oceani assorbono il 30% delle emissioni antropiche di anidride carbonica e questo ne provoca l'acidificazione. Quando la CO2 si dissolve nell’acqua, infatti, innesca una reazione chimica che produce acido carbonico. Dall’inizio della rivoluzione industriale ad oggi l’acidità dei mari è aumentata del 26%, con una velocità 100 volte superiore rispetto ai cambi di acidità avvenuti negli ultimi 55 milioni di anni.
L'acidificazione riduce rapidamente la capacità degli oceani di assorbire CO2, minacciando al tempo stesso la sopravvivenza di molti organismi marini che hanno bisogno del carbonato di calcio (in forte diminuzione con l'aumento dell'acidità), a partire dai coralli, dai molluschi e dai crostacei.
Il benessere dei mari, poi, è minacciato da altri problemi: l’inquinamento da plastica sempre più imponente, l'eutrofizzazione dovuta all'eccesso di concimi azotati in agricoltura, l'eccesso di pesca e la distruzione dei fondali dovuta allo strascico. La conseguenza più macroscopica e quella di cui si parla meno, però, è la deossigenazione, che destabilizza l'equilibrio degli ecosistemi marini più di tutte le altre messe assieme. I pesci, infatti, come tutte le altre creature, hanno bisogno di respirare. E là dove manca l'ossigeno muoiono, come emerge da diversi studi.
Il contenuto medio di ossigeno negli oceani è già sceso di oltre il 2% tra il 1960 e il 2010 e si prevede che scenderà ancora di un altro 3-4% entro la fine di questo secolo. Alcune aree sono particolarmente colpite dal fenomeno: il Pacifico settentrionale e tropicale, l'Oceano Indiano e l'Atlantico meridionale, oltre a moltissime zone costiere (in Italia, ad esempio, l'Adriatico settentrionale), sono più depauperate della media, come emerge da una recente sintesi dell'International Union of Nature Conservation .
In base all'ultimo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change, dal 1970 al 2010 il volume delle "zone povere di ossigeno" negli oceani globali - dove i grandi pesci non possono prosperare ma le meduse sì - è aumentato del 3-8%. Gli ecologi hanno preso in prestito un termine dalla medicina e parlano di “ipossia” per riferirsi alle zone in cui l’ossigeno raggiunge una concentrazione così bassa da compromettere la vita marina.
Negli ultimi 50 anni le zone considerate ipossiche si sono espanse di 4,5 milioni di chilometri quadrati (un’area grande quanto l'Unione Europea), mentre le aree anossiche – del tutto prive di ossigeno – sono quadruplicate. Il problema è impellente e per frenarlo bisogna anzitutto conoscerne le cause.
La deossigenazione è causata in primo luogo dal progressivo riscaldamento delle acque. L'acqua più calda può contenere meno gas disciolto rispetto all'acqua più fredda (ecco perché una bibita calda è meno frizzante di una fredda) e questo semplice effetto di minore solubilità è all'origine della metà della perdita di ossigeno osservata finora nei 1.000 metri superficiali dell'oceano.
Il riscaldamento del clima causa anche altri due fenomeni, che concorrono alla deossigenazione. L’effetto serra fa in modo che le acque di superficie si scaldino più in fretta rispetto a quelle in profondità. In più, l’acqua calda è meno densa dell’acqua fredda e tende a “galleggiare”. Più aumenta la temperatura degli strati superficiali e meno le acque tenderanno a mescolarsi.
Questa maggiore stratificazione porta le acque più profonde a ricevere sempre meno ossigeno. Inoltre, il metabolismo degli organismi marini tende ad aumentare con la temperatura. Di conseguenza, man mano che gli oceani si riscaldano, gli organismi che li abitano consumano più ossigeno. Questo effetto può essere enorme lungo le coste, dove il deflusso dei fertilizzanti alimenta la fioritura delle alghe, che a loro volta alimentano i batteri che assorbono l'ossigeno. L'eutrofizzazione crea sempre più “zone morte”, compresa quella famigerata dell'Adriatico settentrionale.
Alcuni studi hanno ipotizzato che anche l'inquinamento da microplastiche abbia il potenziale di esacerbare il problema della mancanza di ossigeno. In base a questa teoria, se lo zooplancton si riempie di microplastiche, invece che di fitoplancton, il fitoplancton prolifererà, alimentando nuovamente tutti quei batteri che divorano ossigeno sul loro cammino verso il fondo del mare.
Il risultato è un mosaico di aree troppo calde o troppo povere di ossigeno perché vari pesci possano prosperare, portando a diverse vie di fuga. Un esempio molto citato è il caso della costa sud-orientale della Cina, recentemente colonizzata da una specie chiamata in zona “l'anatra di Bombay” (nome commerciale in italiano: bumalo), un pesce lungo e sottile dalla consistenza gelatinosa.
Il boom di questa specie, molto poco vertebrata, dipende dalla mancanza di ossigeno di queste acque, che ha fatto scappare tutti gli altri pesci, tranne questi che, come le meduse, hanno bisogno di poco ossigeno per sopravvivere. In generale, un pesce grande ha un metabolismo più elevato e ha bisogno di più ossigeno.
I mari del futuro - più caldi e ipossici - non solo conterranno meno tipi di pesce, ma anche pesci più piccoli e rachitici e più batteri, che per nostra sfortuna sono produttori di gas serra. I tropici si svuoteranno man mano che i pesci si sposteranno verso acque più ossigenate e molte specie andranno incontro all'estinzione.
Ora i ricercatori stanno cercando di mappare gli effetti previsti per le diverse specie, studiando come la temperatura e l'ossigeno potrebbero limitare i loro futuri habitat e come questi intervalli si sovrapporranno l'uno con l'altro. Una volta in acque dove possono respirare, infatti, i pesci dovranno vedere quale cibo riescono a trovare e quali predatori evitare.
"La mancanza di ossigeno sarà un fattore scatenante per spostarsi in altri luoghi, ma gli altri posti non sono vuoti", spiega Wilco Verberk, ecofisiologo della Radboud University nei Paesi Bassi, che si è molto occupato del fenomeno. “I pesci in fuga incontreranno altri animali che vivono lì e questo cambierà le interazioni competitive tra le specie”.
Nel secolo scorso, dice Verberk, la pressione principale sugli ecosistemi marini era esercitata dalla pesca eccessiva, che ha causato un enorme calo del numero di pesci, ma nei prossimi decenni le minacce legate alla crisi del clima rappresenteranno il problema principale. Di questo passo, tra migliaia di anni, l'oceano potrebbe diventare "una zuppa calda in cui non si può più vivere", prevede Verberk.
L'unico rimedio, secondo gli scienziati, è bloccare le emissioni di gas serra, per contenere il più rapidamente possibile il surriscaldamento del pianeta.
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