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Gli artisti sono le nostre vedette sul futuro, è bello contribuire ai loro sogni

Jean-Paul Claverie è l’anima della Fondazion Louis Vuitton, l’uomo che ha contribuito, insieme a Gehry, a dare forma allo spazio espositivo, che ha portato in mostra a Parigi due delle migliori collezioni di arte moderna al mondo.

di Stefano Castelli

La facciata nord della Fondation Louis Vuitton. Ph Iwan Baan, Courtesy Gehry Partners, LLP and Frank O. Gehry

7' di lettura

La domanda, quasi sempre tendenziosa perché sottintende l'esistenza di un “monopolio del gusto” se non di accordi invisibili, è tra le più ricorrenti quando si parla di arte contemporanea. Chi decide quali artisti meritano di essere lanciati o consacrati definitivamente sulla ribalta internazionale, con ovvi riflessi anche nel campo del mercato? Pur essendo una figura più nascosta rispetto a galleristi o curatori-star, Jean-Paul Claverie appartiene innegabilmente alla schiera dei “decisori” in questo campo, grazie al suo ruolo di consigliere di Bernard Arnault, il presidente del gruppo Lvmh, massicciamente impegnato in programmi culturali e artistici. Nel momento in cui l'ideale del museo pubblico ha abdicato forse definitivamente a favore delle iniziative dei privati (per quanto in Francia le istituzioni pubbliche resistano relativamente meglio che in Italia), esporre in un “tempio” come la Fondation Louis Vuitton rappresenta in effetti una consacrazione enorme per qualsiasi artista.

Arnault insieme all'archistar Frank Gehry, che ha progettato la Fondation Louis Vuitton, sullo sfondo

Eppure parlare con Claverie – eleganza casual, eloquio affabile ma solido e calibrato, da professionista della comunicazione – affascina non tanto per la possibilità di gettare uno sguardo dietro le quinte dell'arte ai massimi livelli, ma soprattutto per sapere qualcosa di più del suo percorso, invidiabile e per certi aspetti sorprendente. Ci sono infatti due fasi nella parabola di Claverie. La sua “prima vita” è sotto il segno della politica e dell'amministrazione pubblica: a 25 anni diventò consigliere per le relazioni culturali internazionali all'interno del ministero della cultura di Jack Lang, personaggio leggendario in Francia, sinonimo della politica culturale in epoca mitterandiana – nell'ottica della democratizzazione della cultura da lui proclamata, si pensi solo che inventò le Nuits blanches, delle quali in Italia abbiamo avuto solo una pallida imitazione in epoca veltroniana «Sette anni che hanno cambiato tutto per me», così definisce questa esperienza nel settore pubblico. «Venivo da studi in parallelo di medicina e diritto internazionale. A soli 25 anni diventai consigliere di Lang. Niente mi predestinava a questo incarico: non avevo legami con Parigi, non facevo politica, non ero nemmeno un enarca (l'Ena è la scuola d'élite che prepara i funzionari francesi, ndr). In 24 ore presi la mia decisione, 24 ore che cambiano il corso di una vita. E non ho rimpianti». Che cosa rendeva unica la visione di Lang e che cosa rimane oggi? «Nella sua idea, all'epoca sorprendente, tutto era cultura: moda, rock, fumetti, design, gastronomia… Ogni questione poteva essere interpretata da un punto di vista culturale (la precarietà sociale, la situazione delle carceri, la disoccupazione…). La sua visione è oggi condivisa da tutti: non c'è più un comune o una regione in Francia che non assegni alla cultura un ruolo centrale. Nonostante la globalizzazione miri, il più delle volte, ad annullare le diversità a favore di una tendenza dominante, tutti i Paesi devono poter preservare la loro identità culturale – e questa è una certezza che si deve a Lang. Certo, la sua era una visione utopica, che si è spesso scontrata con dei limiti, ma molte cose si sono rivelate giuste e si sono concretizzate. La sua riforma del cinema e la sua politica a favore del libro sono state grandi successi. Penso anche alla sua trasformazione del Festival di Cannes, che ha permesso al cinemacoreano, iraniano, africano di esprimersi e di affermarsi».

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Un ritratto di Jean-Paul Claverie, consigliere del presidente di Lvmh Bernard Arnault, impegnato nello sviluppo dei programmi culturali e artistici del gruppo.Courtesy Fondation Louis Vuitton.

La seconda vita di Claverie comincia a inizio anni Novanta: dopo il settore pubblico, il passaggio al mondo del business, al privato, al regno del lusso. Ma ancora sotto il segno della volontà di diffondere la cultura. Non volendo restare in politica né nell'amministrazione, campi «per alcuni versi troppo costringenti, appesantiti da regole che soffocano l'immaginazione e la creatività», Claverie incontra prima un altro big dell'imprenditoria, Jean-Luc Lagardère, e poi Bernard Arnault, proprietario di Lvmh. L'incontro è un “colpo di fulmine” professionale: «Fui subito conquistato da quest'uomo ancora giovane e aperto alle sfide, che aveva comprato Dior e scommetteva su uno sviluppo folgorante. All'epoca Lvmh era già il primo gruppo mondiale nel campo del lusso, ma comprendeva solo una quindicina di società: oggi sono 75. La crescita era ovviamente una condizione chiave del progetto, ma la componente culturale (nel senso langhiano del termine) delle maison del gruppo ha da subito avuto grande importanza. Ci sembrava normale che una parte del successo mondiale del gruppo dovesse essere restituita al mondo della cultura. Ho proposto da subito ad Arnault programmi di educazione museale per bambini e ragazzi, di sostegno ai musei e all'arte contemporanea, programmi nel campo medico, culturale e umanitario… Lvmh sta per Louis Vuitton Moët Hennessy, ma a me piace pensare che l'acronimo si possa leggere anche come “les vrais moments heureux”… momenti di solidarietà e gioia condivisa che compensino i momenti difficili della vita quotidiana».

Blob (Fuck head bubblegum)”, 1996, Steven Parrino. Courtesy The Steven Parrino Estate, André Morin pour le Consortium

L'iniziativa culturale più “visibile” del gruppo rimane la Fondation Louis Vuitton, immaginata da Claverie e Arnault sin dall'inizio del loro sodalizio. Il biglietto da visita di ogni grande museo è la sua architettura. Se il “rivale” François Pinault ha deciso di legare il suo nome a quello di Tadao Ando (anche per la sua nuova, faraonica Bourse de Commerce), Arnault e Claverie hanno fortemente voluto Frank Gehry. Il momento chiave fu nel 2002, con il viaggio a Bilbao alla scoperta del Guggenheim, «organizzato e annullato per due volte. Ci andammo finalmente un mattino di novembre. E Arnault fu soggiogato dall'edificio di Gehry. Volle incontrarlo: dopo un mese e mezzo gli facemmo visita a New York, dopo tre mesi Arnault lo invitò a Parigi per visitare il Jardin d'acclimatation, dove nel 2014 è stata inauguratala Fondation. Fu l'inizio di un'avventura meravigliosa, soprattutto per le qualità umane e artistiche di Gehry».

Skeletal Implosion #4”, 2001, Steven Parrino, parte della collezione della Fondation Louis Vuitton. Courtesy The Steven Parrino Estate. Primae, Louis Bourjac.

Quando si chiede a Claverie quali mostre gli sono rimaste nel cuore tra quelle realizzate alla Fondation, cita l'esposizione su Charlotte Perriand («Straordinaria figura dell'architettura e del design che dialogò con Le Corbusier, Léger e tutti i grandi artisti e pensatori della sua epoca, facendo una preziosa sintesi delle varie discipline») e quella del giovane Jean Claracq. Ma soprattutto le due dedicate alle collezioni di Sergei Shchukin e dei fratelli Morozov – quest'ultima appena conclusa al completo, senza ritiri delle opere in prestito dai musei russi come accaduto altrove dopo lo scoppio della guerra. «Due mostre improbabili sulla carta, che finora non si erano mai potute organizzare. Tutto è cominciato dalla mia amicizia con il nipote di Shchukin, che sognava di portare a Parigi la collezione. Poi, dopo Shchukin, è stato naturale pensare all'esposizione sulla collezione Morozov, mostra anch'essa storica che ha attratto quasi un milione e trecentomila visitatori. Si tratta probabilmente delle due collezioni più belle al mondo di arte moderna».

Passando invece all'attualità, a Venezia, in concomitanza con la Biennale, l'Espace Louis Vuitton presenta un intervento di Katharina Grosse, che continua efficacemente a sabotare dall'interno ed espandere il linguaggio della pittura trasformandola in spettacolari, postapocalittiche ma anche liberatorie installazioni. L'artista tedesca è poi protagonista (assieme a Steven Parrino, Sam Gilliam, Niele Toroni e Megan Rooney) anche nella sede parigina della Fondation, nella collettiva La couleur en fugue che analizza proprio il fenomeno di “fuoriuscita” della pittura dalla struttura tradizionale della tela. Sempre nella sede parigina, infine, una monografica celebra il centenario di Simon Hantaï, gloria “nascosta” della pittura francese (ungherese di nascita), da qualche anno in via di riscoperta e definitiva valorizzazione.

Una vista dell'Espace Louis Vuitton a Venezia, con l'opera permanente di Daniel Buren. Courtesy Daniel Buren, Fondation Louis Vuitton

A proposito di Biennale di Venezia, cosa pensa Claverie delle mostre in cui prevalgono massicciamente le artiste, come forma di risarcimento rispetto alla discriminazione subita dalle donne in campo artistico nel corso del Novecento e oltre? «Il concetto delle quote è secondo me discutibile, in linea teorica. È la qualità dell'opera che deve contare, ma è vero che per tante generazioni c'è stata una negazione, un impedimento all'espressione delle donne. Oggi forse serve essere molto determinati nel far cambiare la mentalità, perché l'equilibrio si ristabilisca in modo naturale». Non è facile, ovviamente, strappare a Claverie retroscena o segreti, ma ci racconta che il suo ultimo “innamoramento” è stata una foto di Yang Fudong scattata in Norvegia, acquistata per la sua collezione personale. Collezione personale che, racconta, non si distanzia troppo dal gusto espresso con le scelte per la Fondation – «spero proprio che non ci sia troppa differenza!», scherza rivendicando una coerenza di fondo tra scelte personali e pubbliche, «che si basano sulla stessa sensibilità e sulle stesse logiche».

Un dettaglio dell'opera “The Daydream”, 2021, di Bianca Bondi, alla Fondation Louis Vuitton. Courtesy Bianca Bondi. Adagp, Paris, 2022. Fondation Louis Vuitton, Marc Domage

Il suo consiglio per un collezionista agli inizi è più sottile del classico “compra ciò che ti piace”: «Se si è autentici, non ci si sbaglia. Comprare un'opera», spiega, «lasciarla penetrare nel proprio universo personale dev'essere un atto di verità nei confronti di se stessi. Una verità emotiva e sensibile, in rapporto con la propria coscienza, perché bisogna subito sentirsi in comunione, magari anche in modo disturbante, con l'opera. Penso a Shchukin che non poté impedirsi di comprare un Picasso che non gli piaceva, ma lo affascinava. Lo portò a casa e all'inizio non riusciva a guardarlo. Ma ne fu comunque pian piano posseduto».

Una vista della sala 7 “Portraits de la peinture”, durante la mostra “Icone dell'Arte Moderna. La Collezione Shchukin”, alla Fondation Louis Vuitton dal 22 ottobre 2016 al 20 febbraio 2017. Al centro, “Femme au chignon ou Baigneuse debout”, 1900, in bronzo, Aristide Maillol. Da sinistra, “Femme étendue sous un arbre”, 1900-1901, Odilon Redon; “L'Étreinte”, 1900, Pablo Picasso; “La Dormeuse“, 1890-1895, Eugène Carrière; “Portrait de Marthe Denis, femme de l'artiste”, 1893, Maurice Denis. Courtesy Succession Picasso 2022. Fondation Louis Vuitton, Martin Argyroglo

Da professionista del settore e da osservatore privilegiato, Claverie non sembra dubitare della persistenza del sistema dell'arte come l'abbiamo conosciuto sin qui. E non riscontra nemmeno un ammorbidimento, una normalizzazione dell'espressione artistica, in tempi di politicamente corretto che rischia di soffocare la libertà degli artisti. Anzi, gli artisti sono per lui tuttora fondamentali per portare a galla temi come ad esempio quelli ambientali, e a questo proposito cita l'opera di Pierre Huyghe («che turba perché provoca una presa di coscienza del mondo attuale»), o come la possibilità di emergere che va data alle minoranze. Gli artisti per lui restano «portatori di una nuova coscienza delle cose. L'opera d'arte è un atto libero di rottura, di provocazione, di coscienza. Una delle fortune di chi fa il mio mestiere è poter entrare in contatto diretto con gli artisti e talvolta di partecipare ai loro sogni. Non tutti sono facili da comprendere, ma bisogna prima di tutto rispettare la loro libertà. Sono le vedette che anticipano il nostro futuro».

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