“Great resignation”: perché è un fenomeno in crescita e come rallentarla
A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto giovani tra i 26 e i 35 anni (il 70% del campione analizzato) e impiegati in aziende del Nord Italia
di Gianni Rusconi
4' di lettura
I dati pubblicati qualche tempo fa da Aidp, l’Associazione italiana direzione personale, sono inequivocabili: le dimissioni volontarie interessano il 60% delle aziende, riguardano diverse decine di migliaia di posizioni e coinvolgono principalmente le aree dell’informatica e del digitale, la produzione e il marketing e le vendite. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35 anni (il 70% del campione analizzato) e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Ad alimentare la cosiddetta “great resignation” concorrono in modo particolare la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di trovare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro.
Il mondo del lavoro post pandemia, e di conseguenza anche i principi alla base dell’organizzazione di molte aziende, riflette cambiamenti segnati da fattori sempre più rilevanti come lo smart working e il work-life balance e ora deve fare i conti con una nuova variabile (la “great resignation” per l’appunto) che ha preso piede negli Stati Uniti a inizio 2021 e che si sta rapidamente diffondendo anche in Italia. Ciò che si legge fra le righe di questo fenomeno in forte sviluppo è l’evidente (e profondo) solco venutosi a creare fra gli esponenti della generazione “baby boomer”, che spesso occupano le posizioni di vertice all’interno delle aziende, e quella dei millennial e della Gen Z.
La fuoriuscita di professionisti (in alcuni casi anche in assenza di un’altra opportunità di impiego) sta mettendo le imprese nella condizione di dover affrontare una sfida nota e ora divenuta prioritaria: trattenere i migliori talenti, e trovarne di nuovi. “Il fenomeno delle grandi dimissioni - precisa Tomaso Mainini, Senior Managing director Italia & Turchia di PageGroup (aziende di recruitment britannica) - si è sviluppato nel periodo dell’emergenza Covid-19 perché molti hanno iniziato a dare maggiore importanza alla qualità del lavoro e della vita privata, mettendo al primo posto i desideri di autorealizzazione e di crescita personale e sociale. Intercettare questi nuovi desideri è la vera sfida che attende le aziende nel 2022”.
Nel nostro Paese, il fenomeno si è manifestato in modo differente rispetto agli Usa ed è stato condizionato, per esempio, dal fatto che i profili con minore esperienza hanno avuto più difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro durante la pandemia poiché le aziende hanno preferito affidarsi a risorse già formate e con competenze specifiche.
Le motivazioni che inducono alle dimissioni volontarie non sono sempre del tutto scontate. Come emerge anche dall'ultima edizione del Randstad Workmonitor, è però certo che i lavoratori italiani hanno condotto in questi ultimi mesi una profonda riflessione su priorità, carriera e obiettivi professionali, riportando al centro l’interesse per il benessere, il coinvolgimento e i valori fondanti della vita. Sono dunque varie le ragioni principali per cui i lavoratori scelgono di lasciare un’organizzazione, e spaziano dalle relazioni professionali con i colleghi e i superiori all’aumento dello stipendio, dalla ricerca di un impiego più interessante ai valori aziendali in cui identificarsi, dal tempo da dedicare a sé stessi alla possibilità lavorare da remoto, dalle opportunità di carriera a quelle di specializzazione in un ambito di interesse, dal clima aziendale al desiderio personale di cambiare e fare nuove esperienze.
“La necessità di attrarre e trattenere i talenti - ha spiegato in proposito Elena Parpaiola, Amministratore delegato di Randstad Italia - richiama tutte le aziende alla necessità di realizzare adeguati piani di retention, partendo da un’approfondita analisi della situazione organizzativa. Purtroppo, troppo poche realtà misurano la soddisfazione dei dipendenti per individuare le ragioni profonde che spingono le persone a restare o abbandonare il proprio lavoro, molto più articolate della semplice offerta economica, per poi mettere in discussione processi consolidati. La forte competizione in atto impone nuove strategie a 360 gradi, con due obiettivi proprietari per ogni business: attrarre e trattenere le proprie risorse”.
Quali contromisure possono quindi prendere Ceo e top management per contrastare i rischi legati alla “great resignation”? In linea generale la strada da seguire, come conferma anche il vademecum stilato da Sd Worx, società specializzata nei servizi di outsourcing del personale, prevede più direttrici e una di queste riguarda sicuramente la formazione continua per i propri dipendenti rispetto alle specifiche competenze di ogni persona. L’attenzione al tema della sostenibilità e l’impegno concreto dell’azienda in chiave sociale sono diventati criteri di scelta altrettanto importanti, al pari della flessibilità (la possibilità di accedere allo smart working) e della stabilità economica. Sono sempre più apprezzati, inoltre, fattori come i bonus legati agli obiettivi (di impresa e personali) o la trasparenza della comunicazione aziendale mentre la capacità di applicare una leadership inclusiva, tesa a valorizzare le capacità e l'unicità dei collaboratori può fare la differenza.
Il benessere del dipendente, questo l’assunto degli esperti, non può che essere al primo posto nella lista delle priorità per le aziende italiane. Coinvolgere e far sentire la persona parte integrante dell’azienda, offrendole le dovute opportunità di crescita professionale, è l’'imperativo per attrarre e mantenere i talenti. Ma lo sapevano anche prima della pandemia e della “great resignation”.
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