I tipici errori delle aziende italiane all'ingresso nel mercato cinese
Non è più una prateria da conquistare, ma un mondo competitivo e sempre più popolato da consumatori informati e digitalmente connessi
di Alfonso Emanuele de León *
4' di lettura
Raccontavamo in un precedente articolo che approcciando l’Asia si tende sempre a partire dalla Cina, quando in realtà è necessario svolgere previamente una analisi di portafoglio e segmentazione dei mercati asiatici, comprendendone le opportunità e le difficoltà per ciascuno, e poi plasmando questa analisi sui punti di forza e debolezza della propria azienda, elaborando una chiara strategia e sequenza di espansione di mercato in mercato.
Se però alla fine si decide di partire dalla Cina, il mercato più grande e con le maggiori opportunità ma anche il più impegnativo, è necessario essere consapevoli dei principali errori e trappole che ci attendono per potere massimizzare i nostri investimenti e penetrare il mercato con successo.
Nella mia esperienza in tanti anni in Asia e poi adesso aiutando le aziende occidentali ad andare in Cina ne vedo cinque in particolare:
1) Pensare alla Cina come una prateria da conquistare, con un approccio di puro export. L’ho visto succedere spesso. E per molto tempo ha funzionato: semplicemente considerare la Cina un mercato anziché un Paese, al quale destinare indistintamente i nostri prodotti, che se piacciono da noi devono per forza piacere anche in Cina. E quindi basta fare “un po' di export”.
Probabilmente questo funzionava fino ad un decennio fa, quando il mercato solo da poco si era affacciato alla ribalta del consumo mondiale, e soprattutto con un consumatore poco sofisticato. All’epoca bastava avere un marchio dal nome ed allure vagamente occidentali ed un po’ di distribuzione in Cina e il gioco era fatto. Qualsiasi cosa che venisse esportato in Cina veniva voracemente consumato, e nulla tornava indietro. Poi però le cose sono cambiate e sia il consumatore che il mercato si sono evoluti, lo vediamo nel prossimo punto.
2) Sottovalutare la competitività del mercato e la sofisticazione del consumatore non studiandolo preventivamente e adattando la nostra offerta. Condivido solo tre dati tra la Cina di oggi e di dieci anni fa nel mondo del lusso selettivo: il mercato si è moltiplicato per dieci (ed il reddito pro capite per tre); il principale segmento di consumo sono diventati i sempre digitalmente connessi Millennials (e nei prossimi 3-5 anni lo diverranno i GenZ, che ad oggi hanno meno di 25 anni!); la percentuale della popolazione che possiede un passaporto (e quindi che è in grado di verificare di persona se una marca è autentica e racconta storie vere nel proprio paese di origine) è passata dall'1% al 9%, ovvero si è moltiplicata per dieci, da 13 a 130 milioni di persone.
Di fatto questo 9% della popolazione cinese è tra il segmento maggiormente informato, connesso digitalmente, e sovra-informato del pianeta, ed avvicinarlo con un approccio non adattato al suo mercato è probabilmente l’errore maggiore che si possa compiere, come tristemente dimostrato dalla débacle di Dolce e Gabbana in Cina due anni fa. Per questo motivo raccomando sempre di investire previamente nella comprensione del consumatore cinese e della sua percezione del nostro marchio. E in non poche occasioni il confronto con consumatore cinese tanto sofisticato ha portato a ridefinire il posizionamento della marca a livello globale.
3) Sottovalutare i tempi di creazione e registrazione del marchio e dei prodotti. Lo dico nel modo più diretto possibile: bisogna partire almeno due anni prima studiando e registrando il marchio e, se necessario, i prodotti. Ritornare sui propri passi nella fase di lancio o peggio ancora dopo rappresenta un enorme spreco di risorse economiche e umane. Uno studio approfondito 24 mesi prima dal lancio è il migliore investimento possibile nel mercato.
4) Non investire direttamente nel mercato affidandosi a un distributore. È vero, il mercato incute timore, per la sua vastità diversità e complessità: 102 città con più di un milione di abitanti, 13 con più di dieci milioni. Ne avevamo parlato proprio nell’articolo precedente: le considerazioni sull’assetto societario per le filiali straniere dipendono anche dalla strategicità del mercato. E se non giustifica l’investimento diretto con una filiale il mercato che presto diverrà il più grande del mondo, che mercato lo giustifica? Per non parlare del controllo che attraverso una filiale si può esercitare su fattori strategici come la brand identity e la customer experience, fondamentali per lo sviluppo della Brand equity in un mercato così strategico.
5) Non affidarsi al management cinese se si è incerti su come approcciare un mercato così complesso, bisogna per forza affidarsi al talento cinese. È verissimo che fa paura affidarsi al management locale, ma progressivamente sarà inevitabile doverlo fare, come già discusso in un precedente articolo della serie di Roberto Guidetti. Anche trascurando per un momento il discorso della lingua, il mercato è non solo troppo complesso e grande, ma in moltissimi aspetti molto diverso dai nostri mercati occidentali e difficile se non impossibile da comprendere e penetrare, ed ancora di più considerando che il mercato si rinnova e si stravolge completamente ogni 12-18 mesi.
Qui, mentre si danno necessariamente delle guidelines chiare al team locale su distribuzione, branding e scontistiche, allo stesso tempo è necessario costruire nel tempo la fiducia reciproca attraverso il rapporto personale, affidandosi al management cinese che ci guiderà a navigare un mercato così importante e complesso al tempo stesso.
Go East!
* Partner presso FA Hong Kong Consulting
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