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Il Consiglio europeo e il tema della sicurezza

La sicurezza ha componenti economiche, ambientali e sociali, non solo geopolitiche e militari. Le unioni di Stati (di cui l’Unione europea, Ue, è un esempio) si formano per garantire la sicurezza dei loro membri, sicurezza che non sarebbe soddisfatta se ognuno di loro agisse da solo

di Sergio Fabbrini

(VanderWolf Images - stock.adobe.com)

4' di lettura

Il Consiglio europeo, tenutosi giovedì e venerdì scorsi a Bruxelles, ha discusso di cose diverse, tutte collegate però da un unico filo, la sicurezza. La sicurezza ha componenti economiche, ambientali e sociali, non solo geopolitiche e militari. Le unioni di Stati (di cui l’Unione europea, Ue, è un esempio) si formano per garantire la sicurezza dei loro membri, sicurezza che non sarebbe soddisfatta se ognuno di loro agisse da solo. Ci sono sfide che nessuno Stato può affrontare individualmente. Se uno Stato (il suo governo, i suoi cittadini) non prende atto di ciò, non ha senso che partecipi a un’unione di Stati. Se vi partecipa, deve riconoscere la distinzione tra interesse nazionale e interesse collettivo (europeo). La sicurezza si garantisce rendendo prioritario il secondo rispetto al primo. Se non si fa così, essa è messa a rischio. Prendo l’esempio di due politiche discusse a Bruxelles.

Comincio dalla politica della difesa (sicurezza militare).

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Il Consiglio europeo ha confermato il sostegno economico-finanziario all’Ucraina, accogliendo l’incremento di 3,5 miliardi per la European Peace Facility e prendendo atto che il 20 giugno scorso la Commissione aveva avanzato la necessità di una revisione del bilancio europeo per istituire una nuova Ukraine Facility con un fondo di 50 miliardi euro (così da garantire un aiuto finanziario al governo ucraino che andasse fino al 2027, anno di scadenza del bilancio pluriannuale). Una Facility con caratteristiche simili a quella che sostiene finanziariamente il programma di Next Generation EU. Ovvero, centralità decisionale della Commissione e possibilità, da parte di quest’ultima, di emettere debito europeo nei mercati finanziari con cui aiutare Kiev. Alcuni leader nazionali hanno subito comunicato il loro mal di pancia nei confronti degli incrementi finanziari, sia per ragioni politiche (come l’Ungheria, che vorrebbe ridurre l’aiuto economico e militare all’Ucraina) e sia per ragioni contabili (i Paesi mercantilisti del nord per i quali l’Ue dovrebbe rimanere un mercato). Eppure, la sopravvivenza dell’Ucraina è una garanzia per la sicurezza dello stesso mercato unico, una sopravvivenza che nessuno Stato membro dell’Ue potrebbe favorire da solo. Qui, gli interessi nazionali debbono essere subordinati all’interesse europeo.

Vediamo la politica migratoria (sicurezza sociale). Il Consiglio europeo ha discusso il Patto sull’immigrazione, elaborato dalla Commissione e approvato a maggioranza qualificata dal Consiglio dei ministri, che promuove la riallocazione dei migranti richiedenti asilo tra gli Stati dell’Ue, prevedendo il contributo finanziario di 20.000 euro per migrante da parte degli Stati che rifiutano tale riallocazione nel loro territorio. Se è vero che l’immigrazione non si affronta chiudendo i mari o alzando i muri, e se è vero che essa può minacciare la sicurezza sociale degli Stati membri, allora è necessario gestirla collettivamente, redistribuendone i costi e le responsabilità, finora lasciati sulle spalle dei Paesi più esposti all’arrivo dei flussi migratori (come Italia, Grecia e Spagna). Non siamo all’abolizione della Convenzione firmata a Dublino nel 1990 o alla trasformazione di Frontex in una guardia costiera indipendente dagli Stati, ma un passo in avanti, seppure limitato, è stato fatto. Eppure, per i leader sovranisti di Polonia e Ungheria, il principio solidaristico della ricollocazione o, in alternativa, dell’aiuto economico, non è accettabile. Così, hanno posto il veto a Conclusioni unitarie, in nome dell’interesse nazionale dei loro Paesi. Il premier polacco, Mateusz Morawiecki, ha minacciato di organizzare un referendum nel suo Paese, se la misura venisse imposta come è legalmente possibile (come fece il sovranista di sinistra, l’allora premier greco Alexis Tsipras, che promosse un referendum contro le politiche di austerità nel luglio 2015). Un referendum che sarebbe utile al partito di governo per portarlo alla vittoria nelle elezioni di ottobre, se è vero che, secondo un sondaggio pubblicato su Wirtualna Polska lunedì scorso, il 50,8 per cento dei polacchi (e l’81 per cento degli elettori del partito di governo sovranista, “Legge e Ordine”) sono contrari alla riallocazione e ancora di meno a risarcire i Paesi che se ne fanno carico. Una posizione difficilmente giustificabile (moralmente), se si tiene presente che, ancora prima della loro entrata nel 2004, l’Ue si è fatta carico di aiutare economicamente la Polonia e l’Ungheria attraverso generose politiche, da quella dei fondi strutturali a quella agricola. Pur collocandosi con la maggioranza dei capi di governo del Consiglio europeo, Giorgia Meloni ha espresso la propria vicinanza ai leader dei due governi sovranisti, riconoscendone il diritto a difendere gli interessi nazionali dei loro Paesi. Per Meloni, probabilmente, l’interesse nazionale è un’insalata russa in cui c’è dentro di tutto. Comunque, anche qui, non si può garantire la sicurezza sociale collettiva, se ogni Stato pensa a sé stesso. Insomma, l’Ue dovrebbe farsi carico di garantire la sicurezza collettiva, lasciando ai singoli Stati membri tutto ciò che non riguarda quest’ultima. Ci sono sfide che non si possono affrontare da soli. Per vincerle, occorre riconoscere la preminenza dell’interesse collettivo rispetto a quello nazionale, dotandolo quindi di una capacità centrale con cui promuoverlo. Se seguissimo i mercantilisti che pensano alle loro saccocce e i sovranisti alla loro ideologia, alla fine saremo tutti (loro compresi) più deboli e meno sicuri.

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