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Il dilemma Ue: modello federale o intergovernativo

Mercoledì scorso, al Parlamento europeo di Strasburgo, nel suo discorso sullo “stato dell'Unione”, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha elencato con pignoleria gli obiettivi raggiunti dall'Unione europea (Ue) durante il suo mandato (iniziato nel 2019).

di Sergio Fabbrini

Ursula von der Leyen (Reuters)

4' di lettura

Mercoledì scorso, al Parlamento europeo di Strasburgo, nel suo discorso sullo “stato dell'Unione”, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha elencato con pignoleria gli obiettivi raggiunti dall'Unione europea (Ue) durante il suo mandato (iniziato nel 2019). Una pignoleria giustificata, vista la mala-informazione che, anche nel nostro Paese, i politici populisti continuano ad alimentare sull'Ue (si pensi al vicepremier Matteo Salvini che ha denunciato «una regia (europea) contro noi», ma dai). Nel suo intervento all'Assemblea di Confindustria dell'altro ieri, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato che «cedere alle paure, quando non alla tentazione di cavalcarle, incentivando - anche contro i fatti - l'esasperazione delle percezioni suscitate» aggrava i problemi invece di risolverli. E di problemi risolti dall'Ue, Ursula von der Leyen ha potuto elencarne molti.

L’Ue ha promosso lo storico programma post-pandemico di Next Generation EU (NGEU), insieme ad un programma altrettanto storico contro la disoccupazione dovuta agli effetti della pandemia (SURE), dei quali (peraltro) il nostro Paese è ed è stato il principale beneficiario. La Commissione ha coordinato l’acquisto dei vaccini, abbassandone il prezzo e aumentandone la quantità (così da distribuirli gratuitamente anche a molti Paesi africani). Ha coordinato l’acquisizione di armi letali, anche in questo caso abbassandone il prezzo, da trasferire a Kiev. Sempre la Commissione è andata oltre i vincoli intergovernativi della European Peace Facility, promuovendo un programma di aiuti militari all’Ucraina (MFA+) indipendente dalle idiosincrasie finanziarie nazionali. L’agenda verde e digitale è stata definita (per l’80 per cento) anche nei suoi aspetti legislativi. Si tratterà, dice la presidente, di implementarla con attenzione agli interessi concreti che potrebbero essere penalizzati, ma è impossibile ritornare indietro visto che i grandi Paesi (Usa e Cina) stanno investendo enormi risorse nelle tecnologie ambientali, elettriche e di intelligenza artificiale. La difesa dell’attuale assetto produttivo europeo può portare qualche voto al populista di turno, ma è destinata a generare la marginalità delle nostre economie per generazioni. L’Europa ha bisogno di innovazione, non solo di regolamentazione. Occorre creare un contesto favorevole alle imprese che guardano al futuro, sostenendo gli investimenti nella decarbonizzazione, nell’idrogeno pulito, nelle tecnologie ambientali, come proposto dalla Commissione nella primavera scorsa con il Net-Zero Industry Act e il Critical Raw Materials Act. Non solo, l’Ue deve diventare un attore geo-politico, contrastando il governo cinese che, non rispettando le regole della “fair competition”, sussidia massicciamente le proprie imprese (come l’industria dei veicoli elettrici) per conquistare i mercati europei. Pur mantenendo il dialogo con la Cina, è ora di rispondere adeguatamente a tali pratiche. L’età dell’innocenza europea è finita.

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Dunque, non c’è trippa per i gatti (populisti). L’Ue ha resistito alle crisi che si susseguono dal 2008, nessuno vuole più lasciarla. Tuttavia, essa deve affrontare problemi strutturali derivanti da transizioni storiche (ambientale, digitale, militare) che hanno una magnitudine di gran lunga superiore alle capacità dei singoli stati membri di affrontarle. Come farlo? Il dilemma è lo stesso investigato nel 1957 da Karl Deutsch, uno studioso tedesco emigrato ad Harvard, in una ricerca pioneristica per capire quale Comunità di sicurezza si è dimostrata storicamente in grado di superare sfide esistenziali. Nelle condizioni dell’integrazione, Deutsch individuò due basilari tipi alternativi di Comunità, la “Comunità pluralistica” (o intergovernativa) e la “Comunità amalgamata” (o federale). La Comunità intergovernativa non è sopravvissuta alle sfide che ha dovuto affrontare, mentre ciò non è avvenuto con la Comunità federale. Ursula von der Leyen non ha detto come l’Ue dovrà affrontare le sfide delle nostre transizioni, ma avrà difficoltà a farlo con il coordinamento intergovernativo. Qualche governo nazionale penserà di avvantaggiarsi da quest’ultimo, in quanto dispone di maggiori spazi fiscali rispetto ad altri, ma l’esito complessivo sarà svantaggioso per tutti. Se uno stato membro raggiunge gli obiettivi del Green Deal da solo, ma gli stati limitrofi rimangono indietro, il successo del primo sarà neutralizzato dai ritardi dei secondi. Quelle transizioni potranno essere affrontate solamente insieme. Gli investimenti per le transizioni dovranno essere fatti da organi sovranazionali, con risorse sovranazionali e in una prospettiva sovranazionale. Ciò richiederà un nuovo paradigma fiscale, basato su una reciproca indipendenza tra Bruxelles e le capitali nazionali. Bruxelles dovrà disporre di una capacità fiscale centrale discrezionale (per promuovere quegli investimenti, oltre che per aiutare gli stati membri a gestire i costi sociali delle transizioni), le capitali nazionali dovranno disporre di capacità fiscali con cui affrontare i rispettivi disequilibri interni. Naturalmente, ciò richiederà una riforma dei processi decisionali di Bruxelles, così da democratizzarli. Non c’è “la transizione in un solo Paese”.

Mario Draghi è stato chiamato a scrivere un rapporto su come affrontare le transizioni. La sua prospettiva è necessariamente europea e non già nazionale (come la nostra premier Giorgia Meloni dimostra di non capire, chiedendogli “di avere un occhio di riguardo per la nostra nazione”, cioè?). Ha molti successi su cui basarsi, ma ancora di più sono le sfide cui dovrà pensare.

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