Il fattore umano chiave di volta per una crescita sostenuta e sostenibile
L’errata offerta formativa genera un livello di competenze troppo basso per le grandi aziende e troppo alto per le necessità di quelle piccole e medie
di Andrea Beretta *
4' di lettura
Recentemente ho comprato e letto “Un mondo diviso”, un saggio di Eugenio Occorsio e Stefano Scarpetta, introdotto da Ignazio Visco, edito da Laterza, sottotitolato in modo inequivocabile: come l’Occidente ha perso crescita e coesione sociale. La fotografia che emerge dal libro, nel descrivere i processi che hanno diviso il mondo negli ultimi trent’anni, con un’accelerazione significativa negli ultimi due anni di pandemia, è impressionante. Occorsio e Scarpetta analizzano quanto e come in questo arco temporale le diseguaglianze sono aumentate tra i Paesi dell’Ocse e i Paesi in via di sviluppo; e all’interno dei Paesi stessi, tra diverse classi sociali.
E fanno loro “l’evidenza, contenuta in diversi studi apparsi negli ultimi anni, che sembra sfatare il mito secondo cui, per promuovere l’iniziativa individuale, lo spirito imprenditoriale e la presa di rischio dobbiamo accettare sempre crescenti livelli di diseguaglianza”. Anzi, dimostrano che “sono cominciate ad emergere evidenze empiriche secondo cui l’evoluzione delle diseguaglianze ha ridotto il potenziale di crescita delle nazioni”.
In estrema sintesi, la loro tesi è che le diseguaglianze non solo non sono un inevitabile effetto collaterale della crescita economica “tout court”, ma ostacolano una possibile crescita sostenuta e sostenibile. Per questa ragione, non solo per motivi etici o morali o per rigenerare un contesto di coesione sociale, sostengono che occorre intervenire con urgenza per ridurre un trend di divisioni crescenti.
Nei Paesi Ocse l’ascensore sociale si è guastato: ai livelli attuali di mobilità intergenerazionale, per un bambino nato in una famiglia a basso reddito ci vogliono quattro generazioni e mezzo per raggiungere il reddito medio. In Italia addirittura cinque generazioni, ovvero 150 anni. La classe media è in affanno a causa di una crescita dei redditi che negli ultimi trent’anni è stata anemica; e di un forte aumento dei costi, legati allo stile di vita della stessa classe media, che ha messo in crisi il portafoglio di molte famiglie. “Negli ultimi venticinque anni il salario medio di una persona appartenente alla middle class è aumentato del 20% mentre il costo dell'affitto, correlato al prezzo degli immobili, è aumentato di dieci volte tanto, ovvero del 200%”.
Il gender gap risulta problema tutt’altro che risolto, dato che nei Paesi Ocse in media una donna guadagna il 12% in meno della sua controparte maschile. La crisi pandemica ha ulteriormente aggravato la situazione: secondo il Gender Gap Report (presentato al Word Economic Forum del 2021), il tempo necessario a chiudere il gap di genere, che prima della pandemia era stimato in 99,5 anni, oggi è di 135,6 anni.
Ancora, il modo in cui l’automazione sta irrompendo nel mondo del lavoro sta generando una polarizzazione dell’occupazione che contribuisce ad aumentare le disuguaglianze, e non solo di reddito, tra le persone. Se da una parte trend globali, progresso tecnico, innovazione tecnologica, invecchiamento della popolazione e globalizzazione contribuiscono ad aumentare divisioni e disuguaglianze, “l’esperienza dei Paesi industrializzati ci insegna che con istituzioni e politiche pubbliche adeguate si possono rafforzare i benefici di questi stessi trend, contenendone l’impatto negativo sulle fasce più deboli della popolazione”.
Secondo gli autori “i governi hanno principalmente due strumenti per rispondere alla sfida delle diseguaglianze: la redistribuzione dei risultati di mercato attraverso tasse e trasferimenti; e le politiche pubbliche che favoriscono l’accesso alle opportunità per chi sta in basso, ovvero a scuola, università, salute pubblica, mercato del lavoro, casa”.
Il capitolo cui Occorsio e Scarpetta dedicano più pagine è quello dedicato alla questione della formazione e dell’investimento sul capitale umano. Fin dagli Anni 60 e 70 del secolo scorso, questa l’apertura del capitolo, sappiamo che “investire in istruzione - con la premessa che dovrebbe essere data a tutti la possibilità di fare questo investimento su sé stessi - ha un rendimento economico elevato”. Nei Paesi OCSE le persone che hanno una laurea specialistica o un titolo equivalente guadagnano in media il 54% in più delle persone che hanno un diploma di scuola media superiore. E recenti analisi indicano “che l’aumento di un anno del livello medio di istruzione della popolazione in età lavorativa si associa nel lungo periodo ad un aumento fra l’8% e il 10 % del Pil pro capite”.
L’Italia, su questo fronte, vive uno stato di arretratezza dovuto sostanzialmente a due ragioni: uno scarso investimento nella formazione iniziale dei ragazzi e in quella continua degli adulti; e una peculiare relazione tra domanda e offerta di competenze sul mercato del lavoro. Sullo scarso investimento il dato più eclatante è che solo il 7,3% della spesa pubblica totale è dedicato all’istruzione, con il nostro Paese posizionato al 41° tra i 42 Paesi analizzati dall’Ocse.
In merito alla relazione tra domanda e offerta di competenze, sembra che il mercato del lavoro in Italia sia inceppato in un meccanismo che vede un livello di competenze troppo basso per soddisfare le esigenze delle grandi imprese (quelle con oltre 250 addetti sono solo il 2-3% del totale imprese in Italia) e troppo alto per rispondere alle deboli richieste delle piccole imprese (l’80% delle Pmi è costituito da microimprese con 3-9 addetti in organico). Il combinato disposto di questi due fattori è una delle probabili cause sia della perdita di produttività del lavoro, sia della perdita di valore dei salari nel nostro Paese: dalla seconda metà degli Anni 90 ad oggi, mentre i salari medi in Francia sono aumentati del 31,1% e in Germania del 37,7%, in Italia sono diminuiti del 2,9%.
La centralità di visioni e politiche di intervento pubblico torna nel libro a più riprese, ancor più in riferimento alla situazione del nostro Paese e alla necessità di una gestione efficace delle risorse del Pnrr. Nonostante la pandemia sia stata un acceleratore delle diseguaglianze che potrebbe lasciare cicatrici permanenti nel tessuto sociale, una delle possibili eredità positive di questo biennio di Covid risiede (o potrebbe risiedere) proprio in una aumentata consapevolezza degli effetti nefasti delle disuguaglianze sul processo di crescita e nella possibilità di usufruire di un potenziale enorme di risorse da investire. La sfida per la classe politica è chiara.
Potrebbe essere interessante per le imprese cogliere l’occasione e gli spunti offerti nel libro da Occorsio e Scarpetta, per ripensare con logiche rinnovate programmi di formazione, strategie di supporto del life long learning, piani di investimento sul capitale umano sul lungo periodo, tre fattori chiave per le stesse imprese per un orizzonte di crescita sostenuta e sostenibile nel tempo.
* Partner di Newton S.p.a.
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