L’esuberanza sartoriale di Margiela chiude le sfilate del ritorno alla formalità
Nella collezione presentata nel bianco abbacinante dell'ultimo piano della nuova sede tutte le ossessioni del genio di John Galliano, alle prese con la sfida di industrializzare la creatività
di Angelo Flaccavento
1' di lettura
Ordine e caos: forze che governano il mondo, da sempre, e che in momenti come quello presente si manifestano con flagrante evidenza. La settimana parigina della moda uomo che si è chiusa ieri ha segnato un evidente ritorno a sartorialità e formalità, declinate nelle direzioni opposte dell'ordine vestimentario e dell’apparente disordine.
Se da Sacai tutto è efficiente e pragmatico, ma sottilmente fuori registro come solo riesce a Chitose Abe - che per inciso collabora anche con Moncler facendo a fette i piumini con logica ferrea per renderli oggetti di puro design e desiderio - da Maison Margiela le silhouette sono prima stratificate e poi scorticate, in una immaginifica fusione di couture e sartoria, maschile e femminile, perbene e sedizioso. Ci vuole una mente eccelsa come quella di John Galliano per governare cotanta deregulation senza cadere nella confusione stordente. La collezione, presentata nel bianco clinico e abbacinante dell'ultimo piano della nuova sede, appena inaugurata, della Maison, freme di tutte le ossessioni gallianesche: velette, silhouette anni 50, teatralità, ambiguità, e una certa aria di follia aristocratica in soffitta a tenere tutto insieme. In questo senso ha forse poco di nuovo, ma è comunque trascinante nella sapienza tecnica che la attraversa. Industrializzare cotanta creatività, certo, non è facile, ma è la sfida vera.
Si muove tra decoro curdo e subcultura metropolitana la bella prova di Dilan Lurr per Namacheco, mentre da Ludovic de Saint Sernin semplicità minimal e seduzione scosciata - minigonne per tutti - si incontrano in una ricetta ad alto tasso ormonale che necessità di maggiore rotondità per non apparire elementare.
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