L’importanza di cambiare il contesto, come ci insegna la storia di New York
Spesso per uscire da una situazione difficile non è necessaria una rivoluzione, basta partire modificando ciò che si vede e percepisce intorno a noi
di Giulio Xhaet *
5' di lettura
Nel 1984 New York era una della città più pericolose e degradate del mondo: gli atti vandalici erano all’ordine del giorno, omicidi e sparatorie fuori controllo. Per fronteggiare la drammatica situazione vennero investiti miliardi di dollari, ma senza alcun risultato. Sembrava che la capacità di cambiare fosse oltre la portata di qualunque attività o strategia. Anche perché il newyorkese medio dentro di sé pensava che niente potesse migliorare, e anzi le cose sarebbero andate sempre peggio.
Poi arrivò David Gunn. Uomo tanto concreto quanto colto, appassionato di amministrazione locale quanto di ricerche sociologiche, venne nominato responsabile della metropolitana e dei sistemi di trasporto cittadini, e iniziò a ragionare su come affrontare la criminalità che serpeggiava in strada.
Gunn era un sostenitore della “Teoria delle finestre rotte”, ideata dai criminologi James Q. Wilson e George Kelling. Secondo questa idea, se una finestra è rotta e non viene riparata, chi vi passa davanti concluderà che nessuno se ne preoccupa, né ha la responsabilità di provvedere. Il che porterà alcune persone a riflettere che “non è così sbagliato se si rompono le finestre”, e qualcuno altro addirittura, potrebbe ritrovarsi a rimuginare “… e se ne rompessi una anch’io, stasera?”.
Una sensazione di anarchia si diffonderà da quell’edificio alla via su cui si affaccia, offrendo il segnale che tutto sia, in fondo, legittimo. Sotto questo punto di vista, il “rompere una finestra in un quartiere cittadino” mostra tre caratteristiche: la concretezza (è qualcosa che posso fare di tangibile e immediato); la ripetibilità (altri come me possono farlo, e io posso rifarlo altre volte); e soprattutto è visibile (chiunque passi di lì può vederlo: è di dominio pubblico).
Secondo Wilson e Kelling sono questi concetti a cambiare il contesto, creare nuove abitudini e portare i veri cambiamenti. In una grande città, elementi apparentemente di minore importanza come i graffiti (che personalmente adoro ma nel contesto newyorkese degli anni ’80 incitavano spesso a violenze gratuite), i biglietti non pagati della metropolitana e i cartelli stradali divelti possono diventare l’equivalente delle finestre rotte, ossia inviti a crimini ben più gravi.
Per questo motivo, David Gunn si diede come obiettivo lo stop ai graffiti e ai biglietti della metro non pagati. Come riferì alla stampa: “Graffiti e biglietti non pagati simboleggiano in modo visibile e concreto il collasso del sistema. Sono aspetti dirimenti”. All’epoca un editoriale del New Yorker lo canzonò, affermando: “Abbiamo criminalità organizzata e killer a piede libero, il sistema è prossimo al collasso, e Gunn investe tempo e soldi per pulire i graffiti e occuparsi di chi non paga biglietti da 1 dollaro e 25 centesimi? Sembra utile quanto spazzare i ponti del Titanic mentre punta dritto verso l’iceberg. Dobbiamo preoccuparci delle cose importanti per cambiare davvero!”.
Gunn non se ne curò e si lanciò nella sua battaglia, che durò anni. Iniziò rimuovendo tag e graffiti: vagone per vagone, treno per treno, linea per linea. La notte i writers arrivavano. Li lasciavano finire, poi arrivavano con i rulli e riverniciavano tutto. I writer, soprattutto i ragazzi, non demordevano, ma gli uomini di Gunn continuavano ad andare su e giù, su e giù. Era un messaggio diretto proprio a loro: se volete buttare via tre notti della vostra vita a compiere atti vandalici su un treno fate pure, ma il graffito non vedrà mai la luce del giorno”.
Per i biglietti Gunn dispiegò fino a dieci poliziotti in borghese per ingresso della metro. Arrestavano chi non pagava, ammanettava ogni singola persona e e la lasciava lì in piedi, per segnalare il più pubblicamente possibile il cambio di passo.A un certo punto, Il cambiamento arrivò, e divenne inarrestabile. Nel 1993 New York aveva cambiato radicalmente volto. I crimini peggiori furono decimati. Il vandalismo era un retaggio del passato. Il nuovo contesto aveva “contagiato” l'intera popolazione di New York.
La storia è stata ripresa in diversi studi, articoli e saggi, tra cui “Il Punto Critico” del giornalista Malcolm Gladwell, che ne fa un esempio portentoso di quello che chiama “potere del contesto”. Si tratta di un principio cardine (sebbene non l’unico) per scatenare un cambiamento, in una grande città come in una grande azienda. Tale cambiamento è inizialmente «sotterraneo», ma si diffonde con velocità e ampiezza inaspettate.
Può sembrare controintuitivo, perché siamo soliti pensare che per un grande cambiamento dobbiamo scardinare le tradizioni dalle fondamenta, strapparne il cuore pulsante, il modo profondo con cui pensano le persone. Peccato che la maggior parte delle volte si riveli la ricetta per il disastro, e anzi l’unico risultato di sforzi titanici sia il rafforzare le abitudini nefaste di tanti individui.
A volte, e io credo la maggior parte delle volte, per cambiare e uscire da una situazione difficile non è necessaria né serve una rivoluzione. Si può partire modificando ciò che si vede e percepisce intorno a noi. E si può partire dalle piccole cose, dalle piccole abitudini. Dai dettagli apparentemente minori. Iniziando una nuova piccola abitudine noi per primi, in modo che sia pubblica e ben visibile agli altri. E perseverare, considerandola una priorità e mettendoci la faccia, come se fosse, oltretutto, la cosa più naturale del mondo.
Noi siamo in grado di diventare protagonisti del contesto. In un contesto aziendale non siamo gocce nell’oceano. Siamo più simili a cucchiai dentro una tazza di tè. Non ce ne vogliono poi così tanti per farlo traboccare. Ovviamente non sempre, perché come ormai ben sappiamo non è vero che volere è potere. Ma a volte provarci offre risultati insperati. Proviamo dunque a diventare agenti del cambiamento in un particolare contesto che ci sta a cuore e in cui forse possiamo ottenere un minimo impatto.
Serve un po’ di ostinata risolutezza e pacata ostinazione, ma si può fare. Ad esempio, negli ultimi anni credo molto nell’empatia digitale, nella capacità di ascoltarsi attivamente online e sui social media. Penso che l’odio in rete e le opinioni polarizzate non siano un male indissolubile, e che noi possiamo dimostrarci più forti degli algoritmi. Perciò, quando ai miei post la gente commenta criticando in modo astioso, provocando o insultando, io rispondo abbassando i toni, con una domanda tranquilla, con un sorriso, per cercare di capire il motivo di tanto astio.
L’ho fatto ormai centinaia di volte, e a volte è accaduto l’incredibile. Mi è successo di diventare amico di qualche hater, che in fondo hater non era, ma solo una persona con una giornata terribile alle spalle. E voi, cosa potreste pensare di fare di concreto, ripetibile e visibile, per provare a innescare un nuovo contesto nella vostra vita?
* Partner di Newton Spa
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