La pandemia ha “portato” in azienda il tema del benessere mentale
Una responsabilità individuale e collettiva, presidiata e generata dalle HR, dai manager e delle persone che lavorano all’interno delle imprese
di Eva Campi e Veronica Giovale *
3' di lettura
Durante questo periodo diverse e intense emozioni ci hanno attraversato, generando risposte individuali e collettive di varia natura, rispetto a qualcosa di ignoto e non governabile che stava accadendo. Terrore, paura, angoscia, smarrimento e confusione sono state alcune delle emozioni vissute. Emozioni erroneamente codificate come negative. Questa codifica errata, che nasce da una cultura non pronta a fare i conti con la complessità dell’essere umano, genera nelle persone risposte parziali e inefficaci. Quando avvertiamo qualcosa come negativo, la prima reazione umana automatica e utile è di allontanare quello che percepiamo come doloroso e quindi evitiamo di accoglierlo, respingendolo appunto.
In questo momento storico, e a più livelli, siamo esposti ad un senso di emergenza e urgenza prolungato. I nostri ruoli lavorativi sono messi a dura prova, come se ci fosse richiesto di fare una maratona essendo allenati solo per fare jogging nel parco. In ogni circostanza emergenziale non si sa come agire, non ci sono ricette pronte, lo stress è alle stelle e, di conseguenza, è facile perdere il proprio centro. Ecco perché è utile e importante essere pienamente responsabili, ovvero essere capaci di adottare risposte efficaci nei nostri confronti e verso le persone che interagiscono con noi, rispetto ad un qui e ora in continuo divenire, confuso e contraddittorio.
Un forte senso di smarrimento, fragilità e impotenza è stato avvertito a livello collettivo e, rispetto alle emozioni prevalentemente vissute, il confronto tra le persone è stato salvifico e generativo. Le considerazioni e le risposte date dalle grandi aziende sono state le più disparate; dicotomiche e polarizzate, perché il tentativo di riappropriarsi del controllo della propria esistenza ci fa fare tutto e il contrario di tutto.
Oggi sono quindi i bisogni delle persone ad essere emersi in modo chiaro ed univoco, e cioè la necessità di:
1) Essere ascoltate e riconosciute nei loro diversi bisogni.
2) Essere viste e gestite secondo la complessità intrinseca di ognuno.
3) Vivere in contesti in cui si sollecitino e siano garantite l’autonomia, la responsabilità e la sicurezza psicologica.
4) Intessere relazioni umane e degli scambi di qualità.
5) Parlare e agire la propria salute mentale.
L’ultimo summit del G20 ha dedicato un evento specifico alla salute mentale. È stata la prima volta e ci auguriamo non sia l’ultima. A far tremare i polsi dei big 20 sono i costi economici dei disturbi mentali che Ocse stima tra il 3,6% e il 4,1% del prodotto interno lordo di ciascuna nazione su base annua, tra costi diretti e indiretti. In quel contesto, la salute mentale è stata definita da Angelo Picardi, psichiatra e ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, quale “elemento fondamentale per uno sviluppo socioeconomico sostenibile e un mondo più equo».
L’Italia da sempre viene riconosciuta per il suo ruolo guida nell’ambito dell’assistenza nella salute mentale. Il processo di deistituzionalizzazione iniziato, infatti, dallo psichiatra Franco Basaglia negli anni Settanta costituisce un esempio imitato in tutto il mondo. Tuttavia, a parlare di salute mentale si fa ancora fatica: nonostante celebrità mondiali stiano mettendo a nudo le loro personali vicissitudini in questo ambito, lo stigma e la vergogna continuano a bloccare l’emersione di un problema sociale dilagante che sta aumentando esponenzialmente come sintomo post-traumatico della pandemia.
Mai come nel 2020 ci siamo occupati, spesso in modo superficiale, di benessere mentale. L’esigenza di attrezzarci per gestire ciò che stava accadendo, fuori e dentro di noi, ci ha portato a far entrare nel mondo del lavoro, nelle aziende, temi fino ad oggi preclusi e considerati “troppo intimi” per non dire poco concreti. Ma niente si è rivelato più concreto dell’ansia, della depressione, del senso di inadeguatezza, del panico che con le più diverse sfumature ha colto un po’ tutti noi.
Tuttavia, i dati ci dicono che l’86% delle persone intervistate in una ricerca della Harvard Business Review ritiene necessario che la propria azienda si occupi di salute mentale. Questa percentuale cresce tra i Millennials e la genZ. La salute mentale diventa quindi una responsabilità individuale e collettiva. È una responsabilità presidiata e generata dalle HR, dai manager e delle persone che lavorano all’interno delle aziende che si attiva grazie ad un ascolto attento e multilivello. Il riconoscimento della fragilità personale e delle persone con cui si interagisce diventano l’elemento essenziale per generare un cambiamento.
D'altronde, il nostro potere più grande è la risposta che scegliamo di dare a quello che ci accade. Che risposta, diversa, vogliamo dare come persone, come organizzazioni e come società?
* Partner di Newton S.p.A.
* Partner di Newton S.p.A.
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