La vita ludica dell'arte
L'espressione artistica, quella più radicale, vive in intima familiarità con il gioco
di Luca Siniscalco
4' di lettura
L'arte, si sa, è impegno civile, morale, politico. È manifestazione sensibile – più diretta, immediata, e quindi intuitiva rispetto al veicolo concettuale – di un messaggio, razionale o emotivo che sia.
Così, perlomeno, è stata ampiamente intesa nell'ultimo secolo, sulla scorta del tentativo di coniugare l'afflato engagé germogliato all'insegna delle temperie ideali del Novecento con il desiderio tardo-capitalistico di immediatezza.
Il presentismo della nostra contemporaneità rifugge dalle mediazioni, dai processi di sintesi e di composizione, predilige la comunicazione diretta e istantanea, il discreto al continuo, e anche l'arte si uniforma a questa esigenza socio-culturale. Eppure, una sensibilità carsica alla nostra civiltà, minoritaria ma per nulla irrilevante, ci ricorda che l'arte è, sorgivamente, un gesto ludico.
Il gioco
Il gioco – ci spiega Johan Huizinga nel suo celebre Homo ludens – è «un'azione libera: conscia di non essere presa “sul serio” e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio (…) e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito».
L'arte vive in intima familiarità con il gioco
L'arte, quella più radicale, vive in intima familiarità con il gioco. Essa non trasmette nulla – nulla che sia concettualizzabile in termini didascalici – se non se stessa, risplende, come la rosa cantata dal mistico tedesco Angelus Silesius, ohne warum, senza perché. Qui è riposto il cuore tenebroso della bellezza, la potenza disarmante e radicale delle sue irradiazioni. La sua immediatezza sempre, ci piaccia o meno, de facto mediata. Proprio come il divino, quell'acuto «scintillamento discontinuo che rinvia a qualcosa di compiuto e continuo» (Roberto Calasso, L'innominabile attuale).Sottraendosi alla richiesta di “rendere ragione” (reddere rationem, dicevano i latini) di sé, l'arte sovverte il senso comune: nel suo mistero abissale e perturbante (unheimlich) risiede la sua concretissima e inattingibile presenza.
Rendere visibile l'invisibile
Martin Heidegger, chiosando il già citato passo del Pellegrino cherubico di Silesius, ebbe a notare: «Il fiorire si fonda in esso stesso, ha il proprio fondamento presso esso stesso e in esso stesso. Il fiorire è puro schiudersi da se stesso, puro splendere. I più antichi pensatori greci dicevano Φύσις». Ecco: proprio l'arte che non vuole dimostrare nulla riesce a rendere visibile l'invisibile. Essa, nel suo gioco incessante, si richiama, più o meno consapevolmente, a tale postura conoscitiva e prassistica: procede similmente alla natura, la Φύσις di cui parla Heidegger, che dispiegandosi secondo le proprie sole norme sempre torna in se stessa. Questo ritorno si attua mediante quello scarto nel quale, proprio all'interno dell'esperienza estetica, l'astante “trascende” se stesso nell'incontro con l'opera. Qui nasce un gioco “serissimo” – serio come la vita e antico come il mondo.
Marsilio Ficino
L'espressione latina «iocari serio, et studiosissime ludere» viene fatta risalire a Marsilio Ficino. Il successo di quest'asserzione apparentemente contraddittoria è proprio riposto nella sua capacità di mostrare lati diversi e complementari sfaccettature dell'esistenza. A mio avviso, funziona in maniera eccellente per simbolizzare l'esperienza artistica, sia dal lato dell'artista, nel suo gioco demiurgico con gli elementi, con i propri demoni, con il passato e il futuro, sia dal lato dello spettatore, che entra nell'esperienza dell'arte come una pedina su un tavolo di scacchi, trasportato da una guida invisibile che coniuga, nella sua vocazione, libertà e necessità.
Ioan Petru Culianu (1950-1991)
Sul tema iocari serio lo storico delle religioni romeno Ioan Petru Culianu (1950-1991) ha scritto un libro splendido, pubblicato postumo (la prima edizione italiana è del 2017), dedicato alla “pneumo-fantasmologia” del Rinascimento. Vi si parla di filosofia, storia delle religioni, complesse dottrine esoteriche; in ultima istanza, il “motore” dell'opera è il gioco ermeneutico: qui ne va del mistero del cosmo tutto. Il simbolo del gioco che attraversa l'immaginario rinascimentale ci narra infatti, secondo Culianu, la scrittura mistica di cui è intessuto il libro del mondo, la quale precisamente nell'arte trova manifestazione esemplare. L'arte, infatti, è ars regia solo quando plasma un frammento di questo gioco inesausto e lo rende profondo – serio – ma senza reificarlo. È chiaro a Paul Klee, che rende eterno il gioco dei bambini nel suo dipinto Ein Kinderspiel (1939). La libera immersione nelle forme e nei colori è un viaggio alla scoperta dell'irriducibile unità dell'esperienza: il gioco tematizzato è quello del bambino raffigurato, dell'artista-bambino che lo ha creato o dello spettatore-bambino che vi si immerge? L'interrogarsi di Klee è eccentrico ma d'altronde non solitario: incontra compagni eccellenti nei grandi sismografi del Novecento, dai futuristi ai surrealisti, senza scordare Picasso, Matisse, Duchamp, De Chirico, il Bauhaus e Fluxus, ma si tiene distante dalla logica nichilista del gioco come puro caso, arbitrio, precarietà. Un gioco serissimo, è quello portato avanti dalla sensibilità di cui stiamo trattando.
Lo zelo dello studioso pedante si trasfigura a questo livello in una ricerca “giocosa”, quel Glasperlenspiel (il gioco delle perle di vetro) di cui parla nell'omonimo romanzo del 1943 Herman Hesse – premio Nobel della letteratura, ma, in questo contesto, soprattutto autore di raffinati acquerelli. Per il tramite ludico, l'arte fa il suo ritorno alla natura – alla rosa di Silesius.
Lo ha notato Carl Gustav Jung, che ne La psicologia del transfert propone sul tema una riflessione pienamente sintonica rispetto a quella di Heidegger: «La scienza si ferma ai confini della logica. Non così la natura, che fiorisce persino là dove nessuna teoria è mai penetrata. La venerabilis natura non si ferma dinanzi al contrasto, ma se ne serve per plasmare dagli elementi avversi un nuovo essere». Insomma: l'artista davvero serio ha lo sguardo del fanciullo che gioca a dadi col mondo (Eraclito e Nietzsche docent) e il sorriso dell'homo ludens di Huizinga, che compete “senza un perché” nell'agone dell'arte.
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