A tu per tu con Carlo Salvatori

«Lascio dopo oltre 50 anni di lavoro in grandi banche, spero negli Stati Uniti d’Europa»

di Alessandro Graziani

Al vertice. Carlo Salvatori (Sora, 1941) è protagonista della scena bancaria italiana da decenni. Nel curriculum, tra le altre cose, il ruolo di primo ad di Banca Intesa, la presidenza di UniCredit dal 2000 al 2006, la vicepresidenza di Mediobanca. Attualmente è presidente di Lazard Italia, incarico che sta per lasciare.

5' di lettura

«Nei giorni della drammatica guerra in Ucraina, emerge con sempre maggiore evidenza la necessità di accelerare l’integrazione europea. Serve una forza militare intereuropea, ma anche la condivisione di una piattaforma fiscale unitaria. All’emergenza Covid si è risposto con il piano Next Generation Eu, ora lo scenario di guerra ci impone di fare un nuovo salto della storia: puntare a creare gli Stati Uniti d’Europa».

Carlo Salvatori, 80 anni, banchiere di lunghissimo corso, si appresta ad andare in pensione: tra pochi giorni, dopo quasi dodici anni, lascerà la presidenza di Lazard Italia (ma il team dei banchieri d’affari gli ha chiesto di restare come presidente onorario). Nel ripercorrere con aneddoti inediti le fasi principali della sua lunga carriera iniziata nel 1962 in una filiale della Bnl, in questa intervista Salvatori rilancia il tema dell’integrazione europea che coinvolge anche il sistema industriale e quello bancario. E ricorda quando da presidente di UniCredit, nel 2005 giocò un ruolo decisivo perché si realizzasse la fusione con la banca tedesca Hvb-Bank Austria. «Loro erano in difficoltà e dovevano aggregarsi ma non volevano confluire né in Deutsche Bank né in Commerzbank – racconta –. Noi eravamo un partner gradito, ma fu una trattativa difficile perché i tedeschi rifiutavano l’idea che il merger risultasse come una nostra acquisizione. Finché non suggerii al nostro ceo Alessandro Profumo di proporre ad Hvb di affidare la presidenza al loro Dieter Rampl. Fu così che la trattativa si sbloccò e l’operazione andò in porto».

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Fare un passo indietro per favorire la fusione fu apprezzato dai grandi azionisti di UniCredit? «Non da tutti, purtroppo. Negli accordi di governance erano previsti tre vicepresidenti, di cui uno vicario, e pareva scontato che il vicario dovessi essere io dato che ero l’ex presidente. Invece Paolo Biasi della Fondazione Cariverona, che non era favorevole all’operazione anche se in cda i suoi rappresentanti votarono a favore, si oppose. Ma io resto convinto che aver creato un gruppo paneuropeo sia stato un bene per UniCredit e per l’Italia».

In una carriera che è durata più di cinquanta anni, quale è stata l’esperienza che ricorda con più piacere? «Certamente i quasi sei anni tra il 1990 e il 1996 alla guida dell’AmbroVeneto, risorto dalle ceneri del crack del Banco Ambrosiano. Da direttore generale gestii insieme all’amministratore delegato Gino Trombi la fusione con la Banca Cattolica del Veneto, creammo la banca più efficiente del sistema – ricorda Salvatori – e fu in quell’occasione che sperimentai il metodo, che poi ho ripetuto negli anni in più di 10 fusioni, dell’integrazione “bottom up guidata”».

Cioè, ci spieghi: quale era il metodo Salvatori? «Le integrazioni non funzionano bene se vengono imposte dall’alto, serve la condivisione di tutto il gruppo dirigente e del personale. Sono loro che poi devono far funzionare la macchina dei ricavi e quindi devono partecipare ai cantieri e ai gruppi di lavoro per dare una prospettiva all’integrazione che vada oltre il puro taglio dei costi».

Insieme al presidente di AmbroVeneto Giovanni Bazoli poi vi dedicaste all’aggregazione con la Cariplo, poi a Cariparma e altro. Finché la vostra Banca Intesa, come fu ribattezzata nel 1997, arrivò ad acquistare il controllo della Comit nel 1999. E poco dopo, in occasione della fusione, si verificò la sua rottura con Bazoli e la sua uscita dal vertice di Intesa. Come andò? «Ormai sono passati tanti anni, lo racconto volentieri. La premessa è che quando UniCredit lanciò l’offerta sulla Comit (e in contemporanea il Sanpaolo-Imi sulla Banca di Roma), io proposi a Bazoli di valutare il dossier Comit perché c’era la possibilità di inserirsi. Ne parlai al Governatore della Banca d’Italia e Bazoli organizzò un incontro a Brescia con il presidente della Comit Luigi Lucchini e i due amministratori delegati Pierfrancesco Saviotti e Luigi Abelli. Nell’immediato non se ne fece niente, e io studiai anzi un’aggregazione alternativa con Bnl». E poi? «Quando il progetto di fusione con UniCredit saltò definitivamente, noi di Intesa presentammo un’offerta per la Comit. Come noto, Bazoli ne parlò con Enrico Cuccia di Mediobanca e io con Fazio e la Banca d’Italia». Sì, ma ci tolga la curiosità: perché poi si arrivò alla rottura dei rapporti tra lei e Bazoli-Guzzetti? «Il mio progetto industriale era di mantenere separate le due banche, con due centri corporate ben distinti per fasce di clientela. La Comit poteva e doveva, secondo me, diventare la prima banca corporate & investment del nostro sistema. Poi una mattina arrivo in banca e la segretaria mi dice che Bazoli mi aspetta nel suo ufficio. Entro e lo trovo con due consulenti di Goldman Sachs e McKinsey. Mi annuncia che lo hanno convinto, per motivi di economie di scala, a fondere Intesa con Comit». E lei? «Dissi che non ero d’accordo, che non potevamo fare una fusione che conveniva più ai consulenti esterni che alle nostre banche. Ma mi resi disponibile a valutare l’integrazione seguendo il mio metodo bottom up guidato». Come andò a finire? «Dopo poco tempo, fui convocato dal patto di sindacato degli azionisti di Intesa. C’erano Bazoli, Giuseppe Guzzetti per Cariplo, Alfonso Desiata per le Generali, Luciano Silingardi per Cariparma e il rappresentante del Crédit Agricole: mi dissero che la loro volontà di azionisti era di procedere con la fusione e che il processo di integrazione sarebbe stato un “top down” affidato al direttore generale Chistian Merle. Il coinvolgimento delle mie persone nei cantieri e nei gruppi di lavoro, che tanto bene aveva funzionato in numerose integrazioni, veniva praticamente disatteso». E lei come prese questa scelta dei suoi azionisti? «Rientrai in ufficio, avvisai la Banca d’Italia e il giorno dopo comunicai le mie dimissioni. Mi fu però chiesto, avendo stima del mio lavoro, di restare ancora per alcuni mesi come amministratore delegato». Questa sua ricostruzione degli eventi diverge però da quella raccontata da Carlo Bellavite Pellegrini nel bel libro Una storia italiana. Dal Banco Ambrosiano a Intesa Sanpaolo, in cui si sostiene che Bazoli avesse giustificato l’incorporazione della Comit in quanto la stessa era stata proposta proprio da lei. «Forse Bellavite Pellegrini ha interpretato male quanto detto dal professor Bazoli. Il presidente sapeva che l’incorporazione della Comit era stato proprio il motivo per cui decisi di andare via, cosa che resi nota anche all’allora Governatore Fazio».

Chiusa l’esperienza in Intesa, Salvatori viene chiamato alla presidenza di UniCredit («un periodo che ricordo con grande piacere anche per la fusione con Hvb, di cui ho già parlato»). E poi, dopo aver guidato tutte le maggiori banche, a sorpresa diventa amministratore delegato di Unipol. Perché fu chiamato nel mondo delle polizze? «Mi chiamò il presidente Pierluigi Stefanini per propormi di guidare Unipol e gli risposi, con totale sincerità, che io non sapevo niente di assicurazioni. Mi disse che per loro la priorità era di darsi un assetto organizzativo adeguato alla dimensione raggiunta e che io avevo dimostrato grande esperienza organizzativa. Accettai, con l’idea di fare un solo mandato e così è stato. Poi Carlo Cimbri ha portato avanti molto bene la crescita del gruppo».

La memoria di Salvatori è impressionante, ricorda ogni dettaglio della sua lunga carriera. L’unico apparente vuoto di memoria riguarda il suo breve periodo alla corte di Cesare Geronzi come amministratore delegato di Banca di Roma («esperienza rimossa, davvero non ricordo», risponde sorridendo).

Molto più chiaro e più piacevole è invece per lui il ricordo degli ultimi dodici anni alla presidenza di Lazard Italia. «Dopo la mia uscita da Unipol, fui contattato da tre banche d’affari. Scelsi Lazard, che aveva subìto da poco lo scossone dell’uscita di Gerardo Braggiotti. Avevo intuito che gli allora giovani banker che erano rimasti erano bravissimi ed erano un team affiatato. Avevano bisogno di un banchiere senior che, forte di una lunga esperienza, li aiutasse mettendo a loro servizio il network di relazioni costruito in tanti anni. Ma sia chiaro: se in questi ultimi anni Lazard è in vetta alle classifiche dell’m&a, il merito è tutto loro. Io li ho aiutati per quello che potevo, ma da loro ho imparato tanto e per questo voglio solo ringraziarli».

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