Le aziende valutano il talento in maniera corretta e imparziale?
Restano una serie di bias e pregiudizi difficili da eliminare nella fase di valutazione del talento delle figure da inserire nell’organizzazione
di Gianni Rusconi
4' di lettura
Se ne parla da tanto, ed è di ricorrente attualità, ma il tema dell’inclusione non è ancora presente in maniera significativa e strutturata nell’ambito dei percorsi di selezione del personale, sia nelle piccole che nelle organizzazioni di medie e grandi dimensioni. Spesso, inoltre, le azioni che rimandano al concetto di “diversity & inclusion” sono legate ad azioni di marketing e di branding più che alla ricerca del valore nelle persone. Il dibattito sulle modalità di ricerca dei talenti è dunque più che mai aperto ed alimentato da interrogativi che riguardano l’effettiva correttezza delle procedure di recruitment o la capacità di sfruttare (da parte dei team Hr) tutti i canali a disposizione, la convinzione (vera o presunta) che adempiere a tutti gli obblighi di legge in fatto di quote rosa o categorie protette sia sinonimo di inclusività o ancora l’effettiva capacità di individuare le corrette e reali competenze di ogni candidato.
Secondo Joelle Gallesi, managing director di Hunters Group, nella maggior parte dei casi la risposta a questi quesiti è quasi sempre negativa perché vi sono una serie di bias e pre-giudizi molto difficilmente eliminabili nella fase di valutazione del talento delle figure professionali da inserire nell'organizzazione. Nessuno, secondo l’analisi della società di ricerca del personale, può dichiararsi immune a pregiudizi definibili come inconsci, collegati per esempio al fatto di aver frequentato la stessa università o di avere lo stesso hobby.
Un approccio da considerare come normale, ma che in fase di selezione può portare a commettere errori di giudizio anche gravi, con conseguenti ricadute negative in termini economici (sostituire un dipendente può costare fino al 50% della sua retribuzione annua lorda tra iter di ricerca e tempi di preavviso) e di tempo che si vanno ad aggiungere (in alcuni casi) al danno reputazionale.
Ed è proprio per questo motivo che Hunters Group ha elaborato un innovativo processo di recruiting (conforme allo standard ISO 30415:2021 e quindi inseribile nel bilancio di sostenibilità) che permette di valutare un candidato focalizzando l’attenzione prettamente su aspetti legati al ruolo e al contesto aziendale, escludendo a priori eventuali bias che possano influenzare l'intero iter. L’attenzione di chi fa recruiting, insomma, deve focalizzarsi sull’aspetto più importante e di fatto anche l’unico (al di là del sesso o dell’appartenenza a categorie protette) che dovrebbe contare per comprendere e giudicare il valore di un professionista, e cioè le sue competenze.
I responsabili delle risorse umane, in altre parole, devono fare proprio un modello di ricerca e selezione che punti all’empowerment della diversità, rendendo quest’ultima sostenibile e anche redditizia. L’esempio da imitare arriva dagli Stati Uniti (e più recentemente anche dalla Finlandia), dove alcuni elementi legati alla sfera privata dei candidati sono omessi volontariamente nel curriculum vitae per lasciare più spazio all’esperienza professionale maturata e alle competenze acquisite, mentre un ulteriore passo in avanti va nella direzione di individuare le skill caratterizzanti del candidato, talvolta sviluppate all’interno di un contesto e di un vissuto lontano da quello del selezionatore.
Reclutare un candidato basandosi su competenze e tecnicismi, svincolandosi da fattori e scelte personali può rappresentare un valore aggiunto non solo per la cultura aziendale, ma soprattutto per la “retention” dei profili nel lungo periodo e per il loro rendimento in termini di business. L’obiettivo principale del processo di selezione dovrebbe dunque essere quello di imparare a conoscere il candidato rispetto a una metodologia (misurabile) che accompagna il recruiter nell’analisi di determinati indicatori.
Ma come si si possono valutare profili privi di esperienze professionali perché appena usciti dal percorso di studio? Secondo Gallesi, si deve partire dal concetto di talento, “che significa attitudine e pertanto si slega dal concetto di competenza, che emerge invece quando un’attitudine si sviluppa attraverso l’esperienza e/o lo studio approfondito. In questo modo, e ponendo l’attenzione solo sul talento della persona, ci si può slegare dai classici bias affinché la persona stessa emerga indipendentemente dalla propria diversity”.
Per fare questo, come suggerisce ancora la manager di Hunters Group, serve definire il perimetro entro il quale quel determinato talento possa diventare valore per l’azienda, così da evitare il rischio di perdere risorse preziose solo perché relegate negli ambiti funzionali classici meno centrali per l’organizzazione.
“Il management - aggiunge ancora Gallesi - deve essere cosciente che questo approccio, sebbene non esente da rischi, porterà nel medio periodo a una crescita in termini di risultati e di soddisfazione delle persone”.
Al cospetto di una selezione errata che continuerà a generare perdite, un corretto processo di selezione può invece garantire un ritorno sull’investimento iniziale, senza dimenticare che risorse inadatte potrebbero mettere a rischio la produttività, compromettere il benessere dei colleghi e, di conseguenza, anche il business aziendale. Se sbagliare non è dunque un'opzione, l’intelligenza artificiale quale ruolo può giocare in un processo di recruiting innovativo e finalizzato a valutare il talento?
“L’AI - conclude Gallesi - è ancora oggi poco implementata nei processi di ricerca e selezione perché viene vista dalla maggioranza delle figure che operano nelle HR come riduttiva rispetto alla possibilità di una valutazione realmente efficace. Gli algoritmi possono essere un elemento complementare a un processo di selezione tradizionale e divenire ancora più importanti se pensiamo di utilizzarli in una fase di screening, e cioè uno dei momenti in cui il rischio di non gestire il processo in modo realmente inclusivo è più alto. Utilizzare in modo corretto, insieme alle metodologie tradizionali, anche l’intelligenza artificiale può rendere più oggettiva questa parte del processo”.
Diversa, invece, è la fase di head hunting per l’individuazione dei migliori profili o quella di selezione vera e propria, dove “è fondamentale saper far emergere le soft skill delle candidature, ambito nel quale l’AI non interviene in modo sostanziale.
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