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Le emozioni al lavoro sono importanti (se sappiamo leggerle...)

Dobbiamo ascoltarle e “seguirle” per vedere che strada stiamo facendo e capire come uscirne se finiamo in un “posto” che non ci piace

di Massimo Calì *

(APS)

4' di lettura

Recentemente in questa rubrica ho fatto qualche considerazione sulle emozioni al lavoro, suggerendo che ci servono ad esercitare un ascolto e una comprensione profonde. Mi riferivo soprattutto a quelle altrui ma il meccanismo è analogo se lo riferiamo alle nostre. Ed è un tema che trovo rilevante per l’urgenza che le persone, nelle aziende con cui collaboro, manifestano riflettendo sull’argomento.

Ragioniamoci a partire da un esempio quotidiano, che spesso simulo in azienda: Mario incontra il collega Riccardo per chiedergli una mano su un lavoro. Immaginiamo che non sia un favore personale, ma che sia il tipo di lavoro che potrebbero fare entrambi. In questo caso è stato affidato a Mario e sta a lui semmai far intervenire altri, senza però la leva gerarchica.

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Mario può avere mille motivi per chiedere l’intervento di Riccardo, dal “sono sovraccarico” e via via “lui è più bravo / più veloce di me; a me piace poco, lui invece spesso si diverte; so che non ha moltissimo lavoro in questo momento” ecc. Glielo chiede, e Riccardo risponde no, motivandolo. Durante le simulazioni, è frequente vedere che le persone “reagiscono” non al no ricevuto, ma al giudizio che immediatamente si formano su chi l’ha dato: è scontroso, poco disponibile, antipatico, egoista, freddo, ecc. Anche se il no ricevuto viene accompagnato da modi percepiti come gentili, spesso il giudizio cambia di intensità ma non di segno: manipolatore, opportunista, “paraculo” e così via.

Il problema è che alla domanda “Cosa è successo?”, sia Mario che gli osservatori non rispondono “Riccardo ha detto no” ma rispondono con un giudizio su Riccardo: è antipatico (quando va bene: Riccardo si è comportato in modo antipatico).

Certamente il modo con cui Riccardo risponde influenza la dinamica, ma l’argomento sul quale ci troviamo a confrontarci più frequentemente è che l’emozione che a Mario suscita il no di Riccardo dipende dalla risposta in sé (è naturale che il rifiuto procuri frustrazione), dai modi di Riccardo e da quello che Mario in genere pensa di lui (è o non è la prima volta che gli dice no), da quante altre persone gli hanno detto no quel giorno.

Ma soprattutto, nella vita reale l’emozione di “Mario” dipende dal pensiero che Mario ha su di sé, sul proprio rapporto con quel lavoro, sul proprio momento particolare, sul mondo “in generale”. Se Mario ha chiesto aiuto perché pensa che da solo potrebbe non farcela, il pensiero al no può diventare “non ce la farò mai” (in generale). Se Mario pensa di non essere molto bravo in quel lavoro, può pensare “ecco, farò la figura dell’incapace”. Se quel lavoro non gli piace, “il mio lavoro (tutto) non mi piace”. Se ha ricevuto più no proprio nella stessa giornata (non necessariamente solo al lavoro), “se ne fregano tutti”. Se Mario ha faticato ieri anche a convincere gli amici su dove andare a cena, “non sono assertivo”, e così via..

Se questi pensieri producono in Mario un’emozione molto spiacevole, questa diventa soverchiante rispetto al no ricevuto e inciderà sul comportamento in modo poco “utile”: sicuramente alla risoluzione del problema “chi fa il lavoro”, ma molto probabilmente anche a mantenere più scorrevole la relazione (questione ancora più necessaria proprio perché gli è stato detto di no).

Più l’emozione è forte, più il problema da risolvere non sembra “chi può aiutarmi a svolgere il progetto / come posso farlo da solo”. Che può essere risolvibile o meno, ma comunque è circoscritto. Invece il problema “non sono assertivo, sono un fallito, il mondo ce l’ha con me, nessuno mi rispetta sul lavoro”, anche ammettendo che sia vero, può non essere risolvibile, e comunque non in tempi brevi, sicuramente non risolvibile facendosi guidare dall'emozione.

Se accettiamo che molte delle emozioni che Mario prova derivino dai suoi pensieri, dobbiamo anche fare i conti con il fatto che le emozioni arrivano, mentre i pensieri che Mario fa possono non essergli così chiari. Se non se ne rende conto, farà ancora più fatica a trovare una strada utile. Anzi, rischia di produrre la profezia che si autoavvera: al liceo, l’idea di non capire niente in filosofia mi fa soffrire (perché penso che filosofia sia una materia importante; perché molti altri sono bravi, ecc). Quando mi metto a studiarla faccio fatica, ma non mi piace sentirmi incapace e allora provo a dimostrare a me stesso che non è vero. Così studio poco, velocemente e male: se riuscirò, quale migliore dimostrazione che non sono incapace? Oppure studio poco, perché facendo fatica mi scoraggio velocemente pensando “ecco, vedi? Non sono proprio capace”.

Peccato che, in entrambi i casi, studiando poco ci capirò ancora meno e sarà quindi più probabile prendere un’insufficienza all’interrogazione, certificando a me stesso il contrario di quello che volevo.

Quindi sembra senza uscita? Può essere. Ma se quei pensieri non risolvono il problema e non fanno nemmeno stare meglio, non conviene a Mario partire dall’emozione, mettere a fuoco il pensiero che gliela suscita (si chiama appunto “consapevolezza”) e immaginare se ci sono pensieri differenti che possono aiutarlo a fare cose diverse, con qualche possibilità in più di uscirne? Per questo conviene ascoltare le emozioni e “seguirle” dentro noi stessi, per vedere che strada stiamo facendo, e capire come uscirne se finiamo in un “posto” che non ci piace.

* Partner Newton Spa


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