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Le università italiane e il paradosso dei troppi indicatori

È una corsa ragionieristica ai risultati, ma non è detto che si selezioni il profilo più adatto

di Dario Braga

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3' di lettura

L’università italiana è ormai entrata in una nuova era, che potremmo chiamare del “parametrocene”. Da qualche anno stiamo assistendo alla proliferazione di indicatori, per lo più associati alla valutazione della performance in termini di ricerca, didattica e, più di recente, anche di terza missione del sistema universitario, quando non dei singoli docenti.
L’arrivo delle risorse del Pnrr, e quindi la necessità di spenderle presto e bene, stanno contribuendo ad accelerare il processo di transizione. Era ora che l’università italiana uscisse dalla discrezionalità e dall’opacità e adottasse una logica e una prassi di accountability con procedure fondate su criteri trasparenti e su parametri verificabili.
Ma siamo sicuri che tutto vada bene? Vedo due conseguenze negative della ipertrofia parametrica caratteristica del “parametrocene”: da un lato, le ricadute sui processi di reclutamento, di selezione e di promozione universitaria a qualsiasi livello, dal ricercatore all’ordinario; dall’altro, la lievitazione di una burocrazia informatizzata ancora più pervasiva e impenetrabile della burocrazia cartacea.
In questo intervento mi concentro sul primo tema, perché l’uso estremo di indicatori e parametri nei processi di selezione e di promozione di ricercatori e professori universitari sta mutando non solo il modo di selezionare ma anche, e questo è peggio, le priorità che i più giovani sono costretti a darsi per non essere penalizzati nelle loro carriere.
Una premessa è d’obbligo, tuttavia. Chi scrive appartiene alla generazione di docenti universitari che ha spinto fortemente perché la comunità accademica adottasse “parametri oggettivi” nella valutazione della produzione scientifica e dell’output di ricerca del personale da reclutare e promuovere. La motivazione era forte: occorreva incrinare, se non già scardinare, la autoreferenzialità di molte commissioni di concorso. Autoreferenzialità che spesso portava a scelte distorte, o ingiuste, come testimoniato da una lunga – mai interrotta – sequenza di contenziosi accademici e giudiziari.
L’introduzione di indicatori come impact factor, citation index, H-index ecc. per misurare in modo oggettivo il grado di apprezzamento da parte della comunità internazionale del lavoro di ricerca, doveva servire ad aumentare la trasparenza dei processi decisionali da parte delle commissioni di concorso. L’obiettivo finale era quello di spingere a scelte palesi e responsabili che, nella selezione, tenessero conto apertamente sia dei curriculum vitae sia delle esigenze strategiche e dei piani di sviluppo della ricerca di una struttura. Il termine “oggettivo” entrava così nel lessico della valutazione della ricerca dei candidati nei concorsi universitari.
Non lo sapevamo, ma stava iniziando il “parametrocene”: alla valutazione parametrica delle pubblicazioni scientifiche da lì a poco si sarebbe aggiunta una pletora di nuovi indicatori: numero di ore di lezione, di tutorato, di dottorato, numero di studenti in tesi, suddivisi tra triennale, magistrale, e dottorale, e poi numero di convegni e di conferenze, se nazionali o se internazionali, numero di ore di attività di terza missione, premi e menzioni, numero di brevetti, numero e importanza degli incarichi gestionali ecc. Un messaggio preoccupante a chi è in carriera: meglio darsi da fare per aumentare la quantità di indicatori favorevoli che non la qualità del proprio Cv.
Le commissioni di concorso sono ora chiamate a un lavoro ragionieristico (non me ne voglia la categoria) di somme e prodotti che non ha nulla a che vedere con la scelta ragionata di chi sia più adatta/o a coprire una certa posizione in un dipartimento universitario o possa contribuire meglio a sviluppare o consolidare una ricerca o una linea di studio.
Bene hanno fatto alcuni atenei a spostare in capo ai consigli di dipartimento la scelta finale tra una rosa di idonei. Vedremo se le dinamiche dipartimentali consentiranno veramente che prevalgano gli interessi dell’istituzione. Se non altro, le chiamate dei professori saranno, nel bene o nel male, il risultato di una assunzione di responsabilità collettiva e non di una gara a punti.

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