Manifestare emozioni al lavoro: uno stimolo, non un segno di debolezza
Essere capaci di empatia rimane una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per contribuire allo sviluppo di relazioni efficaci e generative
di Massimo Calì *
3' di lettura
Recentemente un professionista è andato in pensione e, durante i festeggiamenti con i suoi amici e colleghi, è stato lungamente e pubblicamente fotografato e filmato mentre piangeva con loro, sciogliendosi in lunghi abbracci, tenendosi con alcuni di loro addirittura per mano. È una non notizia, se non fosse che quella commozione e tutte le emozioni che quei professionisti non si sono peritati di nascondere, hanno reso partecipi e grati di non esserne stati esclusi anche i tanti che, per mestiere o ammirazione nei confronti del professionista in questione, seguivano la festa dalle tribune o in televisione, trattandosi del pensionamento di Roger Federer, che a 41 anni ha salutato definitivamente il tennis agonistico.
Cosa c’entra con noi e con questioni aziendali e manageriali? È un nuovo spunto di cronaca per tornare a riflettere sulle emozioni al lavoro (per quanto il “lavoro” da cui partiamo sia quello un po’ anomalo di un campione sportivo). Anche solo per moda, persino gli ambienti più rigidi, formali e paludati prendono ormai in considerazione che le emozioni non si possano lasciare fuori dalla porta.
Al tempo stesso qualche interrogativo, organizzativo e anche individuale, su cosa “farsene” delle emozioni nelle situazioni lavorative, rimane. Perché se è vero che sono sempre più ammesse, credo che resista un paradigma per cui accoglierle è in fondo un gesto doveroso nei tempi che cambiano, ma pur sempre di magnanimità nei confronti di coloro che proprio non riescono a trattenerle; mentre invece essere riservati, tenerle per sé, darsi un contegno (che deriva da “contenere”) rimane comunque preferibile, in quanto segnale di consapevolezza, autocontrollo, rispetto per gli altri (in fondo siamo qui per lavorare, mica per consolarci a vicenda) e alla fine addirittura di “essere professionale”.
E allora cosa farcene? La domanda non è peregrina anche solo perché le emozioni non si possono non provare. Allora può valere la pena partire da un caso particolare, come quello di Federer, che è l’ennesima dimostrazione di come sia difficile anche solo pensare di ricacciarle in gola quando si mette così tanta passione in quello che si fa.
E in epoca di quiet quitting, great resignation, pandemie, crisi mondiali e ripercussioni anche economiche significative, credo sia davvero il caso di chiedersi se non siano addirittura auspicabili, come indicatore del fatto che si mette una tale motivazione intrinseca in quello che si fa. Oppure come inevitabile segnale e conseguenza del fatto che si sta passando attraverso prove che possono davvero scuotere nel profondo.
Al tempo stesso, anche solo per il rispetto dovuto alle differenti preferenze comportamentali di ciascuno di noi (pensate solo all’estroversione e all’introversione), bisogna trovare un equilibrio rispetto al rischio contrario. Quello cioè di ritenere che senza una buona dose di emozioni mostrate o, addirittura, esibite, si debba per forza essere insensibili menefreghisti o non coinvolti in quello che si fa, che è una deriva anche favorita dalla spettacolarizzazione della lacrima (vedasi molti format televisivi che ne fanno largo uso).
E individualmente, a cosa possono anche servirci? Ci servono ad esercitare un ascolto e una comprensione profonde. Spesso assisto in azienda a comportamenti che sovrappongono quello che è stato fatto e detto al cambiamento che dovrebbero aver provocato: “ma io ho tranquillizzato i miei colleghi; infatti ho spiegato loro cosa stava succedendo veramente e perché non devono preoccuparsi”. Senza però accorgersi delle risposte: nei casi più seri nemmeno delle risposte verbalizzate, figuriamoci di quelle emotive.
Quando invece si riesce, si chiama empatia: vero che esserne capaci non garantisce che ne sappiamo fare buon uso, ma come si dice in matematica, essere capaci di empatia rimane una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per contribuire allo sviluppo di relazioni efficaci e generative. E allora queste emozioni possiamo tenercele per noi (e possiamo veramente, senza per questo essere ritenuti egoisti) oppure possiamo lasciarle sgorgare, anche solo per noi stessi, fino a lasciarle a disposizione di tutti quelli che vogliano abbeverarsene.
Facilissimo dirlo. Ma proprio perché è difficile farlo, almeno diciamocelo. Continuiamo a dircelo. A noi stessi e tra di noi, che ci serva da continuo stimolo a cercare strade per arrenderci (dolcemente) all’impossibilità di non provarle, al diritto anche di non mostrarle, “all’adultità” di fare attenzione alle nostre per capire meglio noi stessi e il mondo, al dovere di accogliere rispettosamente quelle altrui (come le nostre), al privilegio di nutrirsi di quelle che ci verranno donate, per le quali ringraziare sempre (bello e rispettabile se apertamente, bello e rispettabile se silenziosamente).
* Partner Newton Spa
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