«Non tutto il cinema è cultura, non tutta l'editoria è cultura»
L'amore per i classici, la passione per il jazz, e poi il cinema. E il senso del talento. Pupi Avati si racconta e ripercorre l'esperienza del ricominciare attraverso la potenza della parola
di S.U.
2' di lettura
La lettura e ancora la lettura. I libri e un amore sconfinato per la parola, in versi o in prosa. Pupi Avati, regista pluripremiato (lunghissima la sua filmografia), racconta la forza del suo innamoramento per i grandi classici e dice: «So esattamente quando tutto ha avuto inizio, riguarda un periodo molto preciso della mia vita. Sognavo di diventare un grande musicista jazz e ho quasi “rischiato” di diventarlo, poi nella mia band sono entrati alcuni musicisti di talento. Uno tra tutti, Lucio Dalla che aveva a disposizione un talento maggiore del mio, in modo indiscutibile, e mi resi conto che la volontà, la caparbietà, l'impegno non erano sufficienti quando non erano supportati dal talento. Fra passione e talento c'è una differenza fondamenta, la passione da sola non basta. Andare contro la mancanza di talento è una battaglia persa in partenza. Ho così chiuso l'astuccio con dentro il mio strumento e sono andato a Milano dove ho lavorato per una ditta che vendeva surgelati. Fino a quando del tutto casualmente in un negozio di dischi non ha incontrato un professore di Filosofia, si chiamava Giovanni Pezzoli…».
Comincia così la galoppata di Avati nello studio della filosofia e nella letteratura. Qui in questa video-intervista il maestro del cinema italiano ci legge i suoi versi, quelli che l'hanno accompagnato, da Alda Merini a Torquato Tasso, a Emily Dickinson.
«Il rapporto con un libro è speciale perché riesce ad essere un rapporto uno a uno. Col cinema è diverso, non parlo a una sola persona parlo a un pubblico. Detto questo io sono molto favorevole alle piattaforme digitali, perché lì sì una singola persona può vedere il mio film, fermarlo, riprenderlo, tornare indietro, proprio come con le pagine di un libro. E allora se parlo a una sola persona alla volta, e non a un pubblico intero in sala, questo mi permette anche di abbassare il tono di voce, di sussurrare».
E poi il rapporto tra sofferenza e creatività: «Le persone più creative e meravigliose che ho incontrato sono persone che sono state a scuola dal dolore», dice.
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