ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùLa scelta dell’Academy

Oscar: ancora una volta… non ha vinto il migliore

Il trionfo di “Everything Everywhere All at Once” - pur prevedibile - non ci convince. Si tratta di un film attento ad essere inclusivo e alla moda. E “The Fabelmans” assurdamente resta a mani vuote

di Stefano Biolchini e Andrea Chimento

Michelle Yeoh trionfa agli Oscar: è la miglior attrice

2' di lettura

Ha vinto il migliore? Decisamente no, almeno secondo noi. Era ampiamente prevedibile, visti tutti i successi ottenuti nelle ultime settimane e non solo, che “Everything Everywhere All at Once” di Daniel Kwan e Daniel Scheinert potesse conquistare l'Oscar più importante – quello per il miglior film – ma la decisione ci lascia ancora una volta decisamente perplessi, soprattutto visto il trionfo della pellicola anche in altre sei categorie: miglior regia, miglior montaggio, miglior sceneggiatura originale, miglior attrice protagonista (Michelle Yeoh), miglior attrice non protagonista (Jamie Lee Curtis) e miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan).
Come lo scorso anno con “I segni del cuore – Coda”, l'Academy ha perso l'occasione di premiare un'opera cinematograficamente meravigliosa: dodici mesi fa parlavamo di “Licorice Pizza”, “West Side Story” o “Drive My Car”, quest'anno invece le nostre preferenze andavano senza dubbio al memorabile “The Fabelmans”, ma senza dimenticare la potenza narrativa de “Gli spiriti dell'isola” o quella artistica di “Avatar – La via dell'acqua”.

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“Everything Everywhere All at Once”

Uscito nelle sale americane durante la primavera dello scorso anno, “Everything Everywhere All at Once” è diventato subito un incredibile caso di successo in patria, sia per le troppo coralmente ottime recensioni ricevute, sia per il ricchissimo box office: solo negli Stati Uniti ha superato i 70 milioni di dollari d'incasso, andando molto al di là delle aspettative.La trama del film è incentrata su Evelyn Wang, una donna che gestisce una lavanderia a gettoni, ha una figlia adolescente che non capisce più, un padre molto anziano e un matrimonio sul viale del tramonto. Un controllo fiscale di routine diventa inaspettatamente la porta attraverso cui la donna viene trascinata in un'incredibile avventura nel multiverso, dove sarà chiamata a salvare il destino di tutti i suoi abitanti.

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Sicuramente il film dei “Daniels”, così vengono chiamati amichevolmente i due registi, è un prodotto originale, ricco di bizzarrie di vario genere, capace di divertire e di dimostrare anche una certa brillantezza nel trattare un tema complesso come quello del multiverso (sintetizzabile con il concetto delle dimensioni parallele) in una logica più vicina al cinema indipendente che ai grandi blockbuster Marvel, a cui solitamente associamo questo argomento. Nonostante gli sforzi evidenti, però, il film scivola troppo spesso in meccanismi narrativi ormai non più così originali e comunque eccessivi nel loro ripetersi (le quasi due ore e mezza di durata non aiutano e stordiscono più del dovuto). Alternando buoni momenti ad altri davvero prolissi, dimenticabili e inutilmente enfatici all'inverosimile, il film funziona a metà, colpendo più per le idee che per la resa effettiva.

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Geopolitica e politically correct

Nuovamente gli Oscar hanno così optato per un film pieno di tematiche “di moda” e forzatamente inclusivo: l'attenzione dell'Academy in questo senso è sempre altissima, con riconoscimenti come al solito politically correct, anche a livello geopolitico (i due premi andati al cinema indiano, per la miglior canzone originale e per il miglior cortometraggio documentario, vanno letti anche così).

Siamo forse in minoranza a sostenerlo, ma poco importa: “Everything Everywhere All at Once” è soltanto un divertissement o poco più.

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