Più competenze green nei board
Secondo un report di Deloitte sulla disclosure climatica le società quotate sono consapevoli dei rischi legati al clima e hanno fatto progressi nella reportistica, ma solo il 18% ha almeno un componente del Cda con una formazione su queste tematiche: serve un’iniezione di nuove capacità tra i consiglieri
di Chiara Bussi
I punti chiave
4' di lettura
Sono consapevoli dei rischi climatici, hanno fatto passi avanti nella loro rendicontazione e coinvolgono sempre più il management su questi aspetti. Ma hanno ancora margini di miglioramento sulla presenza di consiglieri d’amministrazione con competenze specifiche su queste tematiche. È il quadro che emerge sulle società quotate italiane, fotografate, nel loro impegno sulla sostenibilità, nella prima edizione del rapporto sulla «Disclosure climatica» di Deloitte.
L’obiettivo dello studio, realizzato con la collaborazione scientifica del dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Pavia, è comprendere come le aziende sul listino affrontino i temi legati al cambiamento climatico e alla transizione energetica sulla base della reportistica compilata per obbligo di legge o in forma volontaria. E a che punto siano con l’attuazione delle Raccomandazioni della task force sulla rendicontazione finanziaria legata al clima del Financial stability board, nota agli addetti ai lavori come Tcfd. La trasparenza delle informazioni su rischi e opportunità legati al clima che cambia va infatti a beneficio degli investitori e di tutti gli attori in gioco. «Le imprese – spiega Stefano Pareglio, independent senior advisor sustainability di Deloitte – possono e devono assumere un ruolo centrale nel contrasto al cambiamento climatico e ottenere al tempo stesso benefici dalle numerose opportunità legate alla transizione verso un sistema economico e sociale a basse emissioni».
Quattro aree di indagine
Il report si snoda attraverso quattro aree di indagine: governance, strategia, analisi dei rischi e delle opportunità, utilizzo di metriche e target. Ad esse si affianca una quinta sulle azioni di adattamento al cambiamento climatico, le attività di compensazione delle emissioni di anidride carbonica e quelle di sensibilizzazione degli attori in gioco. A ognuno dei 15 indicatori viene attribuito un punteggio in base alla maturità nell’attuazione delle Raccomandazioni Tcfd. Il campione è rappresentato da 236 società quotate sui vari segmenti di Borsa Italiana. Di esse l’82% appartiene al settore non finanziario.
Tra tutti spicca un dato: circa un’azienda su tre (30%) dichiara di coinvolgere il management nella valutazione e gestione dei rischi e delle opportunità legate al clima, mentre nel 2020 la percentuale si fermava al 13 per cento. «È molto cresciuta – fa notare Pareglio – la consapevolezza delle società italiane quotate sulla necessità di agire e di rendicontare le azioni adottate per mitigare le emissioni di gas serra. Questo si accompagna a un crescente interesse a riorientare i modelli di business in modo sostenibile, non solo nei settori industriali più esposti». Tanto che la quasi totalità (94%) delle società quotate considera rilevante il tema del cambiamento climatico e il 29% ha adottato una politica di remunerazione con obiettivi legati al clima che cambia.
Su alcuni aspetti, però, rileva Deloitte, serve una maggiore rapidità di azione. Se ad esempio il 60% del campione ha istituito un comitato endoconsiliare specifico sul cambiamento climatico, solo il 18% delle società conta almeno un consigliere con competenze generiche in tema Esg, cambiamento climatico e sostenibilità . «Di qui – dice Pareglio – la necessità di integrare consiglieri con specifiche competenze in una materia così pervasiva e complessa». Restringendo il focus la percentuale sale al 45% per le società sul Ftse Mib, mentre a mettersi in evidenza sono il settore bancario e quello di energia e utilities dove rispettivamente il 26% e il 21% delle aziende conta almeno tre componenti con queste competenze.
La strategia
Un altro tassello fondamentale riguarda la strategia: oggi il 24% delle aziende si dota di analisi di scenario su cui fondare strategie climatiche. «Si tratta – afferma il senior advisor – di un numero crescente. La qualità di queste analisi e la loro effettiva incidenza sull’allocazione del capitale andranno però sottoposte nel tempo a un’attenta verifica». Si registrano poi passi avanti nell’integrazione del cambiamento climatico nei processi di gestione del rischio: il 70% delle società analizzate sta già seguendo questa strada e la quota sale all’80% per le società sul Ftse Mib. Il 41% dichiara inoltre di valutare i rischi climatici fisici e di transizione, ma solo in casistiche generiche e senza quantificare in modo sistematico gli impatti monetari. Quasi tutte le aziende (93%) rendicontano le emissioni di gas serra dirette (Scope 1) e indirette (Scope 2) e il 42% quelle Scope 3 (generate dalla catena del valore). I settori più virtuosi sono quello bancario (53%) e quello della tecnologia e delle comunicazioni (33%) . Più lenta è invece l’azione di riduzione delle emissioni attraverso forme temporanee di compensazione, come l’acquisto di crediti di carbonio, che riguardano solo il 14% del campione.
A dare ulteriore impulso alla rendicontazione climatica sarà l’entrata in vigore della Csrd, la nuova direttiva in materia (si veda l’articolo a fianco), che segue lo schema delle Raccomandazioni Tcfd. L’intero quadro informativo, conclude Pareglio , «dovrà nel tempo evolversi, fino a consolidare un set di indicatori non troppo esteso ma idoneo a rappresentare la capacità delle aziende di affrontare la transizione e a orientare le decisioni assunte ogni giorno sui mercati».
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