Putin obbliga a ripensare la globalizzazione
di Sergio Fabbrini
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In due giorni, giovedì e venerdì scorsi, si sono succedute a Bruxelles le riunioni di alcuni dei principali organismi del sistema occidentale, la Nato, il G7 e l’Unione europea. In quelle riunioni sono stati discussi temi diversi (dalle sanzioni alla Russia all’autonomia energetica dell'Europa), temi che fanno parte di un unico (grande) problema, la crisi dell’ordine globale liberale. L’aggressione russa dell’Ucraina ha infatti scosso i pilastri di quell’ordine, come l’apertura dei mercati e l’interdipendenza tra i Paesi. È possibile ricostruirli?
Con la fine della Guerra Fredda (1991), una visione liberale delle relazioni internazionali si è affermata, ispirando le scelte dei leader occidentali. Tale visione si è basata su una teoria (elaborata da autori americani come Stephen D. Krasner e John Ikenberry ma divenuta una vera e propria filosofia pubblica in Europa) secondo la quale il sistema internazionale è caratterizzato sempre di meno dalla lotta per il potere politico-militare tra gli stati e sempre di più dalle interdipendenze economiche tra di essi.
Una trasformazione dovuta al consolidamento di regimi internazionali istituzionalizzati, le cui norme e disincentivi tendono ad addomesticare le pulsioni aggressive degli stati. Per di più, una pluralità di attori internazionali non-statali (imprese multinazionali, istituzioni finanziarie, organizzazioni non governative) partecipano al processo che conduce a decisioni globali, così riducendo la possibilità della rivalità diretta tra gli stati. Attraverso quei regimi internazionali, le dispute tra stati e tra attori privati sono state risolte attraverso negoziati basati sul reciproco riconoscimento dei loro interessi legittimi, oppure ricorrendo alle decisioni di magistrature internazionali (quando necessario). Sabino Cassese ha spiegato come negli ultimi trent’anni si sia venuto a consolidare un vero e proprio ordine legale globale, ispirato dai principi del liberalismo internazionale che proteggono i diritti degli individui e non solo gli interessi degli stati. Tale ordine legale globale ha contribuito a delegittimare la guerra come strumento per la soluzione delle contese, anche se non poteva cancellarla. Tant’è che per Daron Acemoğlu e James A. Robinson, le guerre degli ultimi trent’anni sono risultate dal fallimento di uno stato (si pensi all’ex Jugoslavia degli anni Novanta del secolo scorso) piuttosto che da uno scontro tra stati. Perché fare la guerra quando l’interdipendenza produce vantaggi (anche se non egualmente distribuiti) per tutti?
L’aggressione all’Ucraina contraddice tale visione. Non vi è dubbio che l’interdipendenza economica fosse giunta anche a Mosca. Negli ultimi trent’anni, infatti, l’economia russa si è venuta ad intrecciare con le esigenze economiche dei Paesi europei, traendone non pochi vantaggi; il Pil russo è stato sostenuto dalle esportazioni di gas e materie prime nei Paesi dell’Europa (tra cui il nostro); la nuova classe media russa è stata attratta dai consumi occidentali; i ricchi russi hanno trovato estese e convenienti occasioni di investimento finanziario, immobiliare e industriale in Paesi come il Regno Unito. Nonostante le sanzioni successive al 2014 (in risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia), la dipendenza di Italia e Germania dal gas russo è addirittura cresciuta. Eppure, ciò non ha fermato Putin. Forse perché Putin ragiona politicamente, prima ancora che economicamente. Ha ritenuto l’America debole ed ha cercato di profittarne per promuovere la sua visione nazional-imperiale. Dopo tutto, ha ricordato Charles A. Kupchan, è stata l’egemonia dell’America (nonostante i tanti errori) a rendere possibile l’interdipendenza dell’ordine liberale internazionale del dopo-Guerra Fredda. Una volta indebolitasi quell’egemonia, come si è visto con la fuga da Kabul nell’agosto 2021, si sono aperti spazi all’azione unilaterale di tiranni con le armi nucleari (come Putin). Se è stato il declino (relativo) dell’America ad aver condotto al “mondo di nessuno” (No One’S World), in cui non vi è più un Paese in grado di proteggere le istituzioni liberali dell’ordine internazionale, allora l’interdipendenza basata sugli scambi economici e le norme giuridiche, seppure necessaria, non è sufficiente per pacificare il mondo. Il soft power dell’economia va accompagnato dall’hard power della politica.
Ciò avrà conseguenze strutturali per l’Europa. Sul piano internazionale, dovrà ripensare la globalizzazione (su questo giornale, Gianmarco Ottaviano ha parlato di “ri-globalizzazione selettiva”), riducendo le catene di valore e introducendo considerazioni di sicurezza nella cooperazione tecnologica e industriale. Non è più giustificabile la dipendenza energetica dalla Russia o quella dei semiconduttori dalla Cina, ancora di meno lo è la nostra dipendenza militare dall’America. È ora di farci carico della nostra sicurezza. Sul piano interno, come ha scritto Nicholas Mulder, la ri-globalizzazione selettiva richiederà un impegno pubblico senza precedenti, così da neutralizzare i costi sociali della transizione verso una globalizzazione selettiva. L’Europa dovrà rafforzare l’autonomia (a livello industriale e tecnologico) del suo mercato interno e ridurre le diseguaglianze sociali prodotte dalla precedente globalizzazione non-selettiva. Senza coesione sociale sarà difficile riformare.
Insomma, dietro gli incontri e le riunioni di Bruxelles ha aleggiato un problema molto più grande di Putin. Come ricostruire un nuovo ordine globale liberale. I tiranni non sanno che la forza del liberalismo risiede nella sua capacità di rigenerarsi.
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