Quanto c’è davvero di “smart” nel lavoro da remoto?
Occorre definire i parametri basilari di un futuro nel quale il lavoratore sarà sempre più libero di scegliere come organizzarsi
di Francesca Contardi *
3' di lettura
Qualche settimana fa ho partecipato a un bellissimo evento sullo Smart working a Milano. Finalmente, dopo due anni, un bell’evento dal vivo e con tanti testimonial di alto livello di aziende molto importanti. Tutti hanno parlato di smart working e di come implementarlo. Aver ascoltato gli interventi mi ha portato a fare qualche riflessione. La prima riguarda il termine smart. Non so da dove arrivi questa espressione, ma io sinceramente di smart vedo ben poco. Parlerei, piuttosto, di alternanza lavoro da casa - lavoro in ufficio perché, nei fatti, di questo si tratta: quanti giorni lavorare da casa e quanti giorni dall’ufficio. Il futuro, quindi, sarà ibrido e il lavoratore potrà scegliere liberamente come organizzarsi.
Quello che è emerso, durante quell’evento, è abbastanza lineare: occorre andare in ufficio per creare gruppo, imparare, fare squadra o per condividere la cultura aziendale. Qualche giorno a casa, quindi, può bastare. Una tendenza confermata, empiricamente, anche da un taxista con il qualche ho parlato. Gli ho chiesto come stesse andando il lavoro e mi ha sottolineato che fortunatamente hanno molte persone ricominciato a muoversi e a recarsi in azienda e c’è molta più attività.
Gli ho chiesto da cosa dipendesse secondo lui e con grande saggezza popolare mi ha risposto che l’aumento del costo di gas ed elettricità ha spinto molti a tornare in ufficio per risparmiare qualcosa. E devo dire che non ha tutti i torti. Molte aziende, grazie al diffondersi del lavoro da remoto, hanno ridotto spazi e scrivanie basandosi sul fatto che molti, per un certo numero di giorni, sarebbero rimasti a casa. Ma cosa succede se, nei prossimi mesi, per ridurre i consumi domestici tutti si recheranno in ufficio?
A questo si aggiunge un altro aspetto molto importante: la popolazione che dimostra maggiore malessere è quella che, per più tempo, lavora a distanza e che quindi ha socialità e relazioni ridotte. Da ultimo, sta emergendo in modo evidente - e i relatori ne hanno parlato diffusamente durante il convegno - che mentre il full remote aveva una certa efficienza ed efficacia (come dimostrato ampiamente durante il Covid-19) la formula ibrida si sta dimostrando meno efficace. Le persone, hanno raccontato, quando sono in remoto hanno minore concentrazione e tendono ad occuparsi di cose personali durante l’orario di lavoro.
Credo si sia creata una certa confusione sui termini: lavorare in modo smart significa lavorare da qualunque parte del mondo e significa, però, trovare un luogo adatto, strumenti tecnologici adeguati e poter interagire senza intoppi con manager, colleghi e clienti. E in tutto questo, come e dove si colloca l’engagement delle risorse? Perché ammettiamolo, i caffè digitali, i meeting alle 9 con le buone notizie o anche le sessioni di yoga online tutti insieme hanno fatto il loro tempo e la partecipazione è sempre più scarsa.
Elon Musk già qualche mese fa aveva detto che bisognerebbe tornare in ufficio 5 giorni su 5 e, in effetti, negli Stati Uniti ci sono sempre più aziende, anche più piccole, che stanno chiedendo ai propri dipendenti di rientrare. Tutto questo si va ovviamente a scontrare con le scelte e i desideri di molti lavoratori che preferirebbero avere la possibilità di vivere in luoghi economicamente più convenienti o salutari e lavorare a distanza.
Le aziende dovranno, per forza di cose, tenere in considerazione le loro esigenze di business, ma anche quelle delle risorse. Cosa accadrà, dunque, a questi smart workers? Quanto il lavoro ibrido si rivelerà una scelta vincente e non penalizzante? Lo scopriremo nei prossimi mesi.
* Senior Vice President Nelson and Washington Frank Usa
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