Sara Simeoni e quel salto che cambiò la storia dello sport femminile
Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi
di Dario Ceccarelli
6' di lettura
Ce ne sono due, di Sara Simeoni. Ugualmente raggianti, ugualmente contagiose nella loro allegria. La prima, ci riporta a una foto di quasi 43 anni fa. È il 26 luglio 1980. Sara, con le braccia al cielo e una cascata di riccioli volanti, festeggia sul materasso dello Stadio di Mosca il salto (197 cm) che le darà l'oro all'Olimpiade. Un'impresa che fa il giro del mondo e che ci inorgoglisce perché quella ragazza veronese di 27 anni, nell'estate dell'Olimpiade del boicottaggio, batte le temutissime atlete dell'Est facendo fare un salto formidabile sia al nostro Paese, ancora funestato dai lugubri anni del terrorismo, sia a tutto lo sport femminile che, finalmente, conquista la dignità che merita.
«Sì, di questo sono consapevole», precisa Sara come se fosse un concetto noto che però deve sempre rispiegare. «I miei risultati hanno molto contribuito a far capire che l’universo femminile è altrettanto importante di quello maschile. Che noi ragazze, insomma, possiamo dire la nostra. Non dico che siamo migliori, per carità, però gli uomini hanno sempre trovato la porta aperta. Noi invece questo spazio, e lo confermano i recenti exploit delle nostre atlete in tanti sport, ce lo siamo dovute conquistare. Anche a costo di essere un po' testarde. Ecco, come apripista, io sono stata abbastanza testarda…».
L'altra Sara, la seconda, ancor più spumeggiante, è quella vista in televisione al “Circolo degli Anelli durante le Olimpiadi di Tokyo nell'estate 2021 e poi qualche settimana fa nel “Circolo dei Mondiali”, al termine della partite serali di Qatar 2022. Una Simeoni disinvolta e auto ironica, capace di smorzare con i suoi interventi le inevitabili tensioni che emergono nei collegamenti a caldo. «Mi sono sorpresa anch'io», racconta Sara piuttosto divertita. «Molte persone mi hanno chiamato dicendomi che non vedevano l'ora che finissero le partite per vedermi in tv. Non so, forse erano soprattutto amici ben disposti. Io però non sono sui social, e quindi non ho potuto capire le reazioni di chi era meno contento, dei più cattivi. Meglio così…».
Molti sono rimasti stupiti. E hanno detto: ma quella che entra in studio come una soubrette è proprio Sara Simeoni? Un atleta così seria e preparata…
«Credo che la questione sia un ‘altra. Quando venivo intervistata dai giornalisti, come atleta, era molto concentrata sui risultati. Anche quando raggiungevo un obiettivo, pensavo già alle fatiche del giorno dopo. Agli allenamenti, ai sacrifici… Mentre in tv, senza la tensione del risultato, esce la mia anima giocosa. Io sono fatta così, mi piace ridere, scherzare. Anche quando facevo atletica, la componente ludica era importante. Lo è ancora adesso. Se non ci si diverte, se non ci si appassiona, non si va da nessuna parte. I calciatori, dopo le partite ai Mondiale, erano sempre tesi. Seriosi. Perfino dopo aver vinto. Rilassatevi, mi veniva voglia di dire. Godetevi anche il bello della vostra professione. In fondo girate il mondo, vivete da giovani esperienze incredibili…».
È interessante e istruttivo parlare con Sara Simeoni, 70 anni il prossimo 19 aprile. Perché dal suo osservatorio speciale, da quella sua vita due metri sopra il cielo (2,01 record del mondo superato due volte, un oro e due argenti olimpici), si può planare su tante vicende, non solo sportive, della nostra storia recente e presente. Da quel salto di Mosca, che le ha cambiato la vita, sono passati quasi 43 anni. Un altro secolo. Una vita. La Fiat era l'auto più diffusa tra gli italiani. I cellulari non esistevano, internet era una parola sconosciuta. E se dicevi “rete” tutti pensavano alla rete dei pescatori o a un gol durante una partita di calcio.
Non parliamo delle donne nello sport. Figure rare, coraggiose pioniere. Come Alfonsina Strada nel ciclismo, Ondina Valla nell'atletica, Lea Pericoli nel tennis, Novella Caligaris nel nuoto. Eccezioni che confermavano la regola.
«Era un altro mondo. Io mi allenavo come una professionista, ma non c'erano premi in denaro. Per il record mondiale mi diedero sei milioni, ma prima quasi nulla. Vivevo di borse di studio della Federazione e del Cio. Pero vivevo a Formia, il miglior centro per un atleta. C'era anche Pietro Mennea, che poi sempre a Mosca vincerà l'oro nei 200 metri. Pietro era simpatico fuori dalle corse, in allenamento invece era quasi insopportabile. Sempre concentrato su se stesso. Io ero l'ultima ruota del carro. Come tutte, del resto. Lo sport maschile era prioritario. Noi ragazze, per imporci, dovevamo sudare».
Quando ha capito che poteva investire nell'atletica?
«A farla seriamente ho cominciato a 19 anni. Da ragazza volevo fare la ballerina, mi piaceva la Carrà, guardavo in tv “Canzonissima”. Poi ho capito che facendo sport avrei potuto girare il mondo, uscire dalla routine. Non ho pensato all'atletica come a un investimento economico. Alla base di tutto c'era la passione, il divertimento. Ho pensato che così avrei potuto fare delle esperienze interessanti senza gravare sulla mia famiglia. Comunque essere autonoma. Quando cominciai, alle scuole medie, ero solo incuriosita, Non c'era il problema di impostare una carriera, di ottenere dei risultati a tutti i costi. Questo mi ha permesso di arrivare libera con la testa. Ho l’impressione che adesso non sia più così. Molte vengono bruciate dalla fretta di emergere subito…Ognuno ha i suoi tempiù.
Ce lo conferma anche la cronaca: cosa ne pensa delle farfalle della ginnastica? Di questi allenamenti così severi e selettivi?
«Penso due cose: la prima che in queste specialità così impegnative come ginnastica e ballo, ci sia la necessità di un certo inquadramento perché sono sport pericolosi. Sulla trave, sugli anelli, ci si può far male, se si sbaglia. Un minimo di severità è necessaria. Ma gli eccessi sono dovuti anche alle famiglie, ai genitori che sognano che i loro figli diventino delle star. Bisogna educare anche loro. I figli non devono compensare quello che non hanno avuto i genitori. È un circuito micidiale. Poi c'è un proliferare di questi giovanissimi fenomeni: ormai anche allo Zecchino d'oro i bambini devono cantare come i grandi. I piccoli invece devono divertirsi, sono spugne certo, ma non adulti. Io fortunatamente da ragazza mi sono sempre divertita».
Ad un certo punto però ha dovuto fare sul serio…
«Sì, dopo i gioco di Monaco '72. Mi ero classificata sesta, ed ero a tre centimetri dal podio. Mi resi conto che le atlete dell'Est erano ormai alla mia portata. Dopo l'isef, d'accordo con la Federazione, decisi di trasferirmi a Forrmia, come una vera professionista. Era un bell'ambiente, ma dovevo lavorare duro. Ma io ho sempre lavorato duro. Fin da quando, nel 1968, ho cominciato a saltare col Fosbury. Per impararlo ho rischiato di rompermi il collo. Devo molto ai miei allenatori. Erminio Azzaro, che poi è diventato mio marito, è stato importantissimo. Era un grande, sono stata io a convincerlo a diventare mio allenatore…».
Adesso le donne spesso sono più competitive dei maschi. Nello sci, nell'atletica, nel ciclismo. Ha dei rimpianti?
«No, io ho vissuto il mio tempo. Certo ora è tutto diverso. Allenamenti, alimentazione, materiali. Non parliamo delle soddisfazioni economiche. Però ho vissuto bene, senza tutte le pressioni di adesso. Ai miei tempi c'era il problema degli infortuni. Per guarire passavano mesi. Si perdevano delle occasioni. Nel 1984 a Los Angeles ho conquistato un argento con un tendine d'Achille che faceva spavento. Adesso la medicina ha fatto passi da gigante. Forse avrei potuto migliorare il mio record mondiale, ma con i se non si fa nulla….».
Quindi rifarebbe tutto?
«L'unico vero rimpianto è che, una volta ritirata, dopo il 1984, sono ripiombata nel dimenticatoio. È come se mi avessero voluto far pagare i risultati che avevo ottenuto. A poco a poco, dopo che è morto il presidente della federazione Primo Nebiolo, e si sono avvicendati altri presidenti meno lungimiranti, mi sono trovata ai margini del mio ambiente. Mi stavo dedicando ai giovani, mi sembrava importante mettere a disposizione la mia esperienza, ma non è andata così. Forse, se avessi avuto un altro carattere, più condiscendente, più da signor sì, sarei rimasta. Ma non ne sono capace. Soprattutto non sono capace di fare la bella statuina. Il lavoro importante da impostare è quello sulle scuole. Che non deve creare campioni, ma dare la possibilità ai ragazzi di capire in anticipo quale sport potrebbero fare. Anche per la salute. Ora si segue l'amico, si va per sentito dire. Si pensa agli sport dove puoi diventare famoso, guadagnare dei soldi. Invece è importante saper indirizzare subito i giovani. Dopo può essere troppo tardi».
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