Scuole e università al centro di una nuova epoca della conoscenza
«Inventiamo il domani anziché preoccuparci di quello che è successo ieri»: era il motto di Steve Jobs
di Mario Caligiuri
4' di lettura
Lo ha spiegato bene il premio Nobel Joseph Stiglitz: la società si evolve in base all’aumento della capacità di apprendimento. Se questo è vero, chi ha la responsabilità delle politiche nazionali dovrebbe ritenere l’educazione una premessa necessaria allo sviluppo economico. I tempi della politica, però, si soffermano spesso sull’immediatezza delle risposte economiche piuttosto che sul lungo periodo dei risultati educativi, nonostante soprattutto da questi ultimi dipenda la solidità di un sistema democratico, con le implicazioni economiche che si possono immaginare.
Il quadro storico è complicato: stiamo attraversando una trasformazione epocale, in cui l’uomo sembra destinato a fondersi con la macchina. Tre mondi sembrano coesistere: quello fisico, quello digitale e quello dove le due dimensioni sembrano ibridarsi. Gran parte dell’organizzazione sociale, a cominciare dalle istituzioni educative, è invece tuttora impostata nella tradizionale dimensione fisica. Di conseguenza, non abbiamo ancora elaborato le parole, i concetti culturali, le categorie mentali, figuriamoci poi la legislazione, per capire e descrivere la realtà che stiamo vivendo.
Per quanto sia impossibile determinare una data precisa, non è campato in aria sostenere che il 9 gennaio del 2007 sia iniziata una nuova era, segnando per sempre le nostre vite. È il giorno in cui Steve Jobs presentò l’iPhone al mondo, dicendo che: «Inventiamo il domani piuttosto che preoccuparci di quello che è successo ieri». Con i telefoni cellulari presenti costantemente nelle nostre esistenze. Attualmente, si calcola che in media trascorriamo davanti allo schermo fino al 70% del nostro tempo da svegli, e questo nonostante gli inviti dell’Organizzazione mondiale della sanità a utilizzare con prudenza i device digitali, specie nell’infanzia, mentre i bambini, come sa chiunque abbia con loro una frequentazione quotidiana, ne sono spesso consumatori a tutti gli effetti.
Senza voler demonizzare le tecnologie, alcune volte sembra alle porte La solitudine del cittadino globale profetizzata da Zygmunt Bauman, con l’avvento dell’«epoca delle passioni tristi», nella quale i giovani considerano il futuro come una minaccia e non come una promessa. Una fragilità diffusa che riscontriamo spesso dalle notizie dei giornali e che deve indurci a guardare non tanto dentro lo schermo quanto prima dello schermo e cioè nelle relazioni familiari e sociali, a cominciare dall’istruzione.
Sir Ken Robinson, grande esperto di educazione britannico scomparso nel 2020, profetizzava una Scuola creativa con il dovere di invertire l’onere della prova: se così tanti studenti apparentemente “falliscono”, è necessario chiedersi se non sia la scuola stessa a non avere assolto al suo ruolo.
Un discorso in fondo non molto diverso da quello che don Lorenzo Milani immaginava per i suoi ragazzi di Barbiana. Oggi, invece, in molte università, è tutto concentrato sulla creazione di valore. Basti esaminare le classifiche della ricerca, modellate sulle università anglosassoni e basate sulla prevalenza degli insegnamenti scientifici. Su questa scia, si invocano sistematicamente sempre maggiori competenze. E per farne cosa? Non a caso Yuval Noah Harari evidenzia che non conosciamo affatto quali saranno le conoscenze che saranno utili nell’immediato futuro. E di fronte a trasformazioni sconvolgenti, più che ricordare occorrerebbe dimenticare, cioè provare a interpretare la realtà con occhi nuovi, innovando costantemente, nella consapevolezza che la ricerca è erratica.
Nel nostro Paese, periodicamente si evidenzia che si legge poco, che non si visitano i musei, che non si frequentano i teatri. Ma come sarebbe possibile quando il 75% non comprende una frase complessa nella nostra lingua e quasi il 27% è analfabeta funzionale? E l’abisso educativo tra Nord e Sud perché viene sistematicamente ignorato? Eppure, ci ostiniamo a fare riferimento all’istruzione collegata con il Pil, che, come diceva Robert Kennedy, «misura tutto, tranne le cose per cui vale la pena vivere».
Peraltro, in Italia, soprattutto nelle regioni meridionali, l’aumento dell’istruzione, anche rilevante, di fatto non inverte l’arretratezza, poiché non incide nella crescita economica, nello sviluppo sociale e nel contrasto alla criminalità. La scuola e le università continuano invece a trasmettere competenze che formano professioni che rischiano di essere in gran parte superate, poiché il lavoro nei prossimi anni verrà svolto sempre più dagli algoritmi. Occorrerebbe dunque un’educazione che promuova le capacità di stare al mondo, di allenare il pensiero, di sviluppare l’intelligenza critica, di preparare all’incerto e all’imprevisto, di selezionare le informazioni rilevanti per evitare di essere manipolati dalla disinformazione ormai dilagante.
Una formazione che, riprendendo l’efficace immagine proposta da Giovanni Lo Storto in Ero studente, sia pensata e sappia pensare in «largo» e non «in lungo», estesa ad ambiti, contesti e competenze anche molto distanti, innovando radicalmente il percorso di formazione tradizionale dalla scuola materna fino alla professione. E, dato che nessuno si salva da solo, occorre sviluppare le capacità sociali e culturali di lavorare in gruppo, perché la competizione senza regole fa sempre male.
Poiché siamo destinati a lavorare per un sesto della nostra esistenza, uno dei problemi più rilevanti delle società avanzate sarà quello di come impiegare utilmente per sé e per la società il tempo libero. Bellezza, arte, cultura, identità potranno quindi essere motori del progresso umano. Pertanto occorre porre subito porre al centro delle scelte pubbliche la scuola e l’università, perché, così come sono, non rappresentano per nulla una soluzione ai tanti problemi sociali, ma ne determinano una parte rilevante. Non occorrono, allora, interventi di dettaglio, le solite e dannose manutenzioni del dolore, ma riforme strutturali, orientate da una visione e da una pedagogia della nazione che si ponga l’ambizione di disegnare l’Italia di domani. Che peraltro già c’è ma che, con i nostri occhi stanchi, ancora non riusciamo a vedere.
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