STRATEGIE GESTIONALI

Trasformazione per obiettivi e risultati, partendo dai dati (e dalle persone)

Nei modelli basati sul modello OKR le persone non sono più al servizio dell’organizzazione, ma esattamente il contrario

di Gianni Rusconi

(REUTERS)

4' di lettura

Quante aziende hanno oggi la necessità (se non l'urgenza) di trasformarsi velocemente? Tante, se non tutte. Ma non sono molte quelle che sanno come farlo. Una soluzione, che sta timidamente prendendo piede anche in Italia, risponde all’acronimo OKR, Objectives and Key Results, e cioè un approccio alla gestione del business e al coordinamento dell’organizzazione fondato sulle (poche) cose veramente importanti per portare engagement e sviluppo continuo in azienda.

Matteo Sola e Francesco Frugiuele, rispettivamente partner e co-founder di Kopernicana, società milanese di organizational design e change management, hanno scritto il primo libro italiano sul tema OKR (uscito lo scorso maggio) cercando di approfondire le tecniche di implementazione di questo “modello” (con tanto di use case) e il tema della trasformazione manageriale. Li abbiamo intervistati.

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Quali sono, oggi, le priorità di un leader per gestire la trasformazione?
Leader - risponde Francesco Frugiuele - è un termine inglese antico che indicava chi, in battaglia, faceva il primo passo, in modo che gli altri seguissero. Oggi questa visione della leadership diventa ancora più importante, perché si sta mettendo radicalmente in discussione la visione ingegneristica dell’organizzazione che ha dominato gli ultimi 100 anni di storia del management. Abbiamo scoperto che l’organigramma, in realtà, è un’illusione, che l’azienda in sé non esiste, che le aziende sono reti complesse e mutevoli di relazioni tra persone. In tale contesto, la priorità di un leader è quindi quella di riconoscere questa semplice rivoluzione copernicana: le persone non sono più al servizio dell’organizzazione, ma esattamente il contrario.

Come si attua questa rivoluzione?
Partendo dalle persone, innanzitutto. Anni di esperienza nel design ci hanno mostrato come sia più efficace progettare prodotti e servizi per e con gli utenti: lo stesso vale per la trasformazione del modo di lavorare. Se gestiamo la trasformazione facendola progettare da chi la dovrà mettere in pratica, questa sarà più rapida, efficace ed economica. In secondo luogo, riconoscendo il fatto che trasformazione e cambiamento sono l’unica vera costante del nostro mondo. É sempre più evidente che, per sopravvivere, le imprese devono permettere alle persone di adattare e modificare continuamente il modo in cui lavorano, comunicano e collaborano tra loro. E gli OKR, tra le altre cose, abilitano questo principio.

Quanto è importante la tecnologia per analizzare performance e risultati e indirizzare al meglio le scelte di manager e team?
Il nostro mondo non esisterebbe senza tecnologia. Gli OKR hanno bisogno di dati e di evidenze numeriche per essere adottati. La tecnologia deve permetterci di districarci tra la gigantesca mole di dati che deriva dal nostro lavoro e dalla nostra vita privata e deve trasformare i dati in informazioni che abbiano senso. Quando aiutiamo le aziende ad adottare gli OKR, la principale raccomandazione che facciamo loro è quella di non perdere troppo tempo per cercare dati nuovi, bensì di concentrare le energie per capire cosa dicono i dati già disponibili. La principale forza degli OKR è nel generare un “mindset” che comprende ciò che è prioritario, che rende le persone concentrate a lavorare su cosa conta di più.

Lavorare per risultati e obiettivi: si può fare anche in smart working senza rischiare di alimentare il fenomeno del burnout?
Una cultura aziendale che sfrutta lo smart working - spiega Matteo Sola - come modello di lavoro sposta la gestione e il coordinamento delle persone dalla presenza fisica in ufficio a principi di responsabilità e autonomia guidati da obiettivi chiari e risultati misurabili. Gli OKR fanno proprio questo: “diradano la nebbia” di un carico di lavoro spesso troppo influenzato dall’emotività di un management che cambia idea tutti i giorni e da un modello operativo legato alla pressione del “fare tante cose”. Gli OKR aiutano a gestire il lavoro da remoto in modo più sano ed equilibrato perché spingono a focalizzarsi su poche cose chiare, chiarendo in primis “cosa non è importante e prioritario fare” e allineando di conseguenza l’organizzazione verso ciò che è realmente strategico. Così facendo si aumenta l’efficacia delle persone e dei team, azzerando l’affanno della continua rincorsa all’approvazione del capo.

Come si allena invece la capacità di essere costruttori del proprio futuro dentro un’organizzazione?
Come ogni processo di cambiamento, introdurre gli OKR è un percorso non istantaneo e non privo di incertezze ed ostacoli. Imparare a coinvolgere in modo più ampio le persone e a misurare costantemente i risultati non è banale. Serve tempo, supporto in termini di formazione, coaching sul campo e strumenti tecnologici di facile utilizzo. Quello che però non deve mai mancare per mantenere questo tema sempre centrale nella testa delle persone è il sostegno del top management e la comunicazione interna per dare visibilità ai piccoli successi quotidiani del percorso di trasformazione. Gli OKR evidenzieranno i problemi e metteranno sotto stress le dinamiche di potere interne, in particolare se disfunzionali, ma questo permetterà di capire quale sia il funzionamento reale dell’organizzazione oltre i rigidi schemi descritti nei processi e negli organigrammi.

I millennials sono i soggetti più ricettivi al tema degli OKR?
Le nuove generazioni stanno contribuendo a far capire alle aziende che avere un lavoro fine a sé stesso non è sufficiente, se lo scopo ultimo del proprio ruolo non è trasparente e significativo. Gli OKR aiutano a chiarire questa dimensione e contribuiscono a cambiare la cultura manageriale perché restituiscono alle persone, a ogni livello, la capacità di portare un contributo strategico e consapevole all’organizzazione. I millennials, inoltre, mal sopportano l’autoritarismo e più facilmente lo mettono in discussione se lo stile manageriale non si apre al coinvolgimento dal basso e all’ascolto anche dei più giovani. Nella complessità del business attuale, avere dipendenti che agiscono come “braccia non pensanti” non è più sostenibile.

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