ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùL'arte del Natale

Tutti a tavola! Collezionare pittori e fotografi che raccontano la convivialità

Il pranzo delle feste è il momento ideale per una raccolta d’autore sul cibo. Fra nature morte e collage satirici di ricette, piatti con richiami presocratici e immagini trouvée.

di Laura Leonelli

Un'immagine della collezione di photographie trouvée di Valentina De Santis. ©Courtesy Grand Hotel Tremezzo

5' di lettura

È lui il nostro uomo, il nostro eroe con le posate alzate in segno di vittoria che inizia il pasto più ricco della storia dell'arte, la grande abbuffata per divenire collezionisti di quell'esperienza meravigliosa e a volte indigesta che è lo stare a tavola in compagnia o soli, tra cose amate o estranee, tra cose vive o morte. A pochi giorni dal pranzo natalizio, qualunque sia la nostra temperatura religiosa, impegniamoci dunque a stilare il menu più fantastico dell'anno, scegliendo i piatti forti nell'infinita dispensa di oltre due millenni di pittura e quasi due secoli di fotografia.

Disegno e collage, anni Sessanta. L'opera di Bohumil Štěpán è stata ricoperta da pochi anni da Caroline Markovic, gallerista parigina, e Daniella Dangoor, collezionista londinese. ©Courtesy of L’Atelier d’Artistes

Cibarsi di immagini fino al più onnivoro cannibalismo visivo è il requisito indispensabile per sedersi a tavola accanto a un artista geniale come Bohumil Štěpán, pittore, illustratore, grafico, caricaturista ceco, nato nel 1913 a Křivoklát e, per tutta la vita, fedele allo spirito surrealista, persino durante la dittatura sovietica. Quando, nel 1968, fiorisce improvvisa e liberatoria la Primavera di Praga, Bohumil ritrova l'energia della prima giovinezza e insieme alla moglie, Hana Štěpánova, anche lei artista, crea una splendida serie di collage satirici oggi esposti nella bella galleria di Caroline Markovic, L’Atelier d’Artistes a Parigi. Ed è stata proprio Caroline, insieme a Daniella Dangoor, collezionista londinese, a riportare l'attenzione internazionale su questo artista così importante e ingiustamente dimenticato.

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Disegno a inchiostro e collage dalla serie “Galerie”, anni Sessanta, Bohumil Štěpán. ©Courtesy of L'Atelier d'Artistes

Ma la festa praghese dura pochissimo, una cena felice intorno ad Alexander Dubček, e al ritorno dei russi la vita si spegne. L'erotismo e ancor più il saper ridere dell'erotismo tornano a essere tabù e sono ormai un ricordo il cannibale di Bohumil, il divoratore dell'arte greca, e insieme a lui i demoni e gli angeli che escono da un boccale di birra e la più furba di tutte le galline, pronta a disarcionare il suo cavaliere e a fuggire saltando il filo spinato. Nel 1969 anche Hana e Bohumil riescono a scappare e, condannati in absentia, si stabiliscono a Monaco dove ricominciano a vivere, liberi. Sulla grande tavola della loro città natale erano rimasti solo piatti rotti e macchie di sangue. I vegetariani potrebbero obiettare che chiunque mangia carne, chiunque impone la morte per sfamarsi, provoca una strage. Diceva Pitagora, forse il primo vegetariano della storia: “È mai possibile che tra tutti i frutti che la terra produce, tu non desideri altro che maciullare con i tuoi denti carne animale, facendo rivivere le abitudini dei Ciclopi?”. Difficile controbattere al senso di giustizia e civiltà di tali parole, e forse l'unica scusa accettabile per tutti i carnivori della terra è che molte di queste uccisioni non sono state invano, tanto hanno ispirato il talento e il genio di almeno sette secoli di artisti.

Due opere di Bohumil Štěpán. “Bière blanche” e “Bière Noire”, collage su carta, anni Sessanta. ©Courtesy of L'Atelier d'Artistes

La prova, sicuramente crudele, è la grande tradizione della natura morta, come racconta la spettacolare mostra Les Choses. Une histoire de la nature morte , aperta al Louvre fino al 23 gennaio. Titolo profetico “le cose”, perché rimanda alla reificazione dei corpi, tema caro alla riflessione contemporanea, e perché nelle cose, complice la globalizzazione, quindi noi, stiamo ormai affogando. Eppure, nonostante il gusto da banchetto funebre, la mostra trasmette una vitalità, un piacere, un'euforia che acquieta i palati più polemici. Anche perché, prima di arrivare al celebre finale di Zabriskie Point, diretto da Michelangelo Antonioni nel 1970, prima di vedere esplodere e volteggiare in aria i resti dei nostri frigoriferi sulle note dei Pink Floyd, ci siamo gustati il sapore del pane fresco e dei fichi in un affresco di Pompei del I secolo della nostra era, abbiamo assaggiato la cacciagione che Clara Peeters dipinge ad Anversa nel 1611, e abbiamo sentito il profumo del Bouquet de fleurs di Roelandt Savery, anche lui fiammingo.

“Foodscape” (1964), di Erró, pseudonimo di Guðmundur Guðmundsson. ©Courtesy Moderna Museet

Per ritrovare oggi fiori di simile bellezza dobbiamo “scendere” al George V di Parigi e pranzare a Le Cinq, tre stelle Michelin, immerso nelle magnifiche creazioni floreali di Jeff Leatham. Ma la mostra prosegue e ci siamo appena dissetati ammirando le angurie carnali di Luis Egidio Meléndez, napoletano classe 1716, quando incontriamo e letteralmente spremiamo con gli occhi Le Citron di Édouard Manet, del 1880. Ma non ci basta, perché sulla nostra tavola-collezione abbiamo appena appoggiato la Navet, la rapa, e la freschissima Botte d’asperges che Manet realizza sempre nel 1880 per Charles Ephrussi, e a cui aggiunge un singolo asparago, L’Asperge, per pareggiare il costo troppo alto della prima tela. Pochi passi, il tempo di ammirare l'umile desco di Henri Rousseau e la sua Bougie rose, del 1908, quindi i carciofi di Giorgio de Chirico nella sua Mélancolie d’un après-midi, del 1913 e, ancora, le rose di Dorothea Tanning, Some Roses and Their Phantoms, del 1952, e siamo arrivati sazi, livello Alka-Seltzer, all'immensa Foodscape di Erró del 1964. Oltre c'è il guanto di spugna gigante di Jim Dine. Tempo di raccogliere le briciole e sparecchiare. Domani, mangeremo gli avanzi.

“Le Citron” (1880), di Édouard Manet. ©Courtesy Musée d'Orsay.

A tavola un gourmet esigentissimo si trova sempre e spetta a lui o a lei notare un'assenza importante tra “le cose” del Louvre, nel senso dell'intera collezione del museo e di tutti i musei francesi. Tra i quadri in mostra, diciamolo, manca ingiustamente una tela di Evaristo Baschenis, magnifico pittore seicentesco, principe della natura morta e inventore di un genere poi copiatissimo, la pittura di strumenti musicali. Non poteva toccare che a Maurizio Canesso, sua la magnifica Galerie Canesso a Parigi, ovviare a questa mancanza e organizzare, in collaborazione con l'Accademia Carrara di Bergamo, la prima mostra in Francia in senso assoluto dedicata a Baschenis, ovvero Evaristo Baschenis (1617-1677). Le triomphe des instruments de musique dans la peinture du XVIIe siècle , aperta fino al 17 dicembre e curata da Enrico De Pascale, storico dell'arte, massimo esperto internazionale del pittore bergamasco e già curatore della sua retrospettiva al Metropolitan di New York, nel 2000. In poco più di una cinquantina di opere, tra scene di cucina e metafisiche “tavole musicali”, Baschenis celebra la doppia natura del nostro nutrimento, terreno e spirituale. Ovunque regna il silenzio, sia che l'artista dipinga liuti, violini, chitarre, mandole, sia quando ritrae due polli spennati e le interiora sono crudelmente appoggiate su un tavolo. Il vero trionfa sempre, «perché Baschenis - spiega De Pascale - dipinge ciò che ha davanti agli occhi, non solo la varietà degli oggetti riuniti in mirabili composizioni, ma soprattutto la varietà del tempo che inserisce ogni cosa nel flusso della nostra esistenza. Con eguale virtuosismo, Baschenis sorprende l'istante della mosca che si posa su una partitura musicale e il riposo della polvere sulla cassa di un liuto, e il segno del nostro passaggio, altrettanto effimero su quella stessa polvere, è l'impronta delle dita di una mano».

“Polli e anatra appesi e frattaglie sopra il tagliere” (XVII secolo), Evaristo Baschenis, collezione privata.

Se parliamo di istanti e di tempi lunghi, allora, parliamo di fotografia. E se parliamo di quella fotografia che da oltre un secolo ritrae le occasioni della nostra convivialità, parliamo allora della bella collezione di photographie trouvée di Valentina De Santis, appena nominata vincitrice del premio Migliore Hotelier dell'anno per il Grand Hotel Tremezzo e il nuovissimo Passalacqua, magnifiche proprietà sul lago di Como. Un unico tema lega queste immagini anonime e antiche, che Valentina ha raccolto negli anni in giro per il mondo, e l'ingrediente segreto è il piacere di mangiare insieme, la sacralità del cibo, le attenzioni che dedichiamo a prepararlo e presentarlo sulla tavola di tutti i giorni e nelle occasioni di festa.

Da quando la fotografia è diventata un gesto semplice, alla fine dell'Ottocento, ogni generazione ha voluto ritrarsi a tavola per testimoniare il piacere della convivialità. Le immagini di questa pagina, anonime, realizzate dai primi del Novecento agli anni Trenta, provengono dalla collezione di photo trouvée di Valentina De Santis, ceo e proprietaria del Grand Hotel Tremezzo, sul lago di Como. ©Courtesy Grand Hotel Tremezzo

Queste piccole immagini, oggi esposte in parte nel ristorante L’Escale del Grand Hotel Tremezzo, raccontano frammenti di vita senza nome, una tavolata di amici, forse colleghi, forse attori a fine tournée, un picnic dei primi del Novecento, un “verre de vin rouge” negli anni Trenta della Provenza, un numero di camerieri acrobati. E poi c'è un gatto, che aspetta qualcosa o qualcuno sulla tavola di una cucina, accanto a una cestina di vimini vuota, forse allusione coltissima alla più famosa cestina di Caravaggio. Ed è proprio quel gatto, domestico e silenzioso, che ci ricorda chi siamo. Siamo degli affamati, sempre. Di cibo, di nuove idee, di ricordi.

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