Un cabinet de curiosités che raccoglie la bellezza del mondo
97 modi per declinare il modo in cui l'estetica della natura incontra la maestria artigiana, 97 pezzi nati sotto la guida di Jacqueline Karachi-Langane.
di Fabrizia Villa
5' di lettura
Scriveva Raffaele La Capria: «In tempi in cui la complicazione viene confusa con l'intelligenza, e sembra più profonda della semplicità, io ho scelto per me “lo stile dell'anatra” - della leggerezza che non mostra lo sforzo che si fa per ottenerla - tenendo sempre presente che semplicità non è semplificazione, e vale solo dopo aver sbrogliato il gomitolo della complessità». Quando si parla di alta gioielleria, dal 2006 Cartier affida il gomitolo della complessità a Jacqueline Karachi-Langane, dal 2009 Creative director di Cartier Prestige. A lei il compito di raccontare ogni volta una grande storia celando la fatica che si nasconde dietro a ciascuna collezione. «La nostra è una visione plurale, un coro di voci diverse di cui io sono solo il filo conduttore e garante di continuità e coerenza», spiega.
Quarant'anni di lavoro per Cartier sono la tutela del rispetto delle radici e dei codici della maison fondata nel 1847, come ricorda spesso durante il nostro incontro via Zoom all'indomani della presentazione, a Madrid, della collezione di alta gioielleria. «Volevamo raccontare la bellezza del mondo con lo sguardo sempre curioso dei fratelli Cartier. Abbiamo cercato la bellezza nei paesaggi, nella flora e nella fauna, com'è nella tradizione, e lo abbiamo fatto con il nostro sguardo contemporaneo, con una grande conoscenza stilistica del vocabolario della maison, in sintonia con i tempi, ma al di fuori delle mode passeggere», racconta. Così è nata Beautés du Monde. «Questa collezione è costruita come un cabinet de curiosités, come se avessimo viaggiato in tutto il mondo con lo sguardo aperto del collezionista, portando a casa tutto ciò che ci sembrava importante per la nostra wunderkammer. In realtà è stato un viaggio del tutto onirico, perché si è svolto durante il lockdown. Forse proprio grazie al fatto di essere stato virtuale, questo percorso ci ha portato ancora più lontano. I 97 pezzi della collezione sono stati trascritti secondo il nostro immaginario attraverso l'astrazione e la stilizzazione, lasciando spazio all'interpretazione di chi li ha creati, ma anche a quella di chi li indosserà».
L'ispirazione, come sempre, parte dalle pietre. «Nel caso di Iwana, uno dei pezzi più rappresentativi del savoir-faire Cartier, abbiamo usato smeraldi che avevano una forma e un volume particolari e ci hanno portato a pensare all'iguana, alla singolare geometria della pelle di questo animale, che poi è stata tradotta in un collier che, a sua volta, è una seconda pelle, leggera, mobile, costituita da un reticolo geometrico formato da un'infinità di triangoli di diamanti e smeraldi». Qui l'heritage parla attraverso il triangolo, uno dei motivi mutuati dall'arte islamica che più ha influenzato il lavoro sulla geometria e l'astrazione della maison. Come in tutte le collezioni di alta gioielleria, la complessità è anche costruttiva. «Ogni pezzo è l'occasione per cogliere una nuova sfida tecnica. Spesso i nostri gioielli sembrano semplici, ma non lo sono affatto ed è per questo che è difficile copiarli». A volte non si coglie immediatamente la difficoltà perché questa si nasconde dietro a un piccolo dettaglio, come per uno dei sette anelli che costituiscono una capsule collection all'interno della collezione, sette gioielli-scultura che interpretano tutti i principali codici identitari: geometria, movimento, contrasti cromatici, ispirazione a flora e fauna.
«L'anello Mizuchi spiega bene che cosa intendiamo per sfida costruttiva. In questo caso, la difficoltà era rappresentata dagli onici, che qui devono adattarsi alla forma curva del pezzo, accenti molto sottili che seguono il volume dell'anello ispirato all'occhio del dragone. Dopo aver ricevuto il rifiuto di molti artigiani, che sostenevano impossibile adattare l'onice a una tale complessità, abbiamo deciso di costruire questo pezzo al computer. Poi, naturalmente, la finitura è stata fatta a mano, perché le macchine non sono in grado di eguagliare il livello di definizione del gioielliere».
Usare nuovi strumenti accanto a quelli tradizionali riflette il percorso in continua evoluzione della maison. «Io sono stata la seconda donna a entrare nello studio di design di Cartier e la precedente aveva fatto il suo ingresso solo un anno e mezzo prima», spiega Karachi-Langane. «Se il mondo della gioielleria per anni è stato appannaggio degli uomini è anche perché le donne non erano accettate nelle scuole d'arte e, negli ambienti artigianali, le cose erano anche più complicate. Quando ho chiesto di lavorare in un laboratorio d'incisione, dopo aver concluso i miei studi all'École Boulle di Parigi, mi sono sentita dire che ero donna e fragile per quel lavoro. Adesso le cose sono decisamente cambiate. Oggi, dopo che la tendenza si era quasi invertita, nel mio studio siamo tornati a trovare un sano equilibrio tra presenze maschili e femminili, cosa che offre la possibilità di avere punti di vista differenti e complementari. Certo è che le donne hanno una sensibilità in più rispetto ai gioielli, capiscono quale sia la sensazione di un'altra donna nell'indossarli, ne colgono la flessibilità, il peso, il movimento».
Mentre racconta non smette di muovere le mani. «Porto sempre grandi anelli e ci gioco tutto il tempo, fanno parte di me. Essendo circondata tutti i giorni da gioielli importanti non sento la necessità di possederne, piuttosto ho dei piccoli amuleti, che ovviamente sono le pietre, come il diamante che porto sempre al collo». Eccola la semplicità che non è semplificazione, un tratto di carattere che emerge a ogni battuta, come un certo spirito di servizio che traspare dal tono della voce. Non è un caso se nelle sue note biografiche, accanto alla pratica dello yoga, viene citata la passione per il raku, la tecnica di cottura della ceramica giapponese in sintonia con lo spirito zen (ma anche con lo stile dell'anatra) in grado di esaltare l'armonia delle piccole cose e la bellezza nella semplicità delle forme, un'arte al servizio di un'altra arte, quella della cerimonia del tè.
Ci sono tenacia e generosità nelle parole di Karachi-Langane che s'illumina quando parla di trasmissione, di eredità. «Oggi ciò che più conta nel mio lavoro è trasmettere al mio team i codici. Penso che per evolvere sia necessaria una grande esperienza e sento che la mia missione è far capire ai giovani qual è il linguaggio che devono padroneggiare per poi poterlo, a loro volta, trasmettere alle generazioni successive. Spesso si tratta di dettagli, di questioni di armonia, che fanno di un pezzo, un pezzo Cartier. Per un disegnatore e per un gioielliere ci vogliono circa dieci anni per arrivare a creare per l'alta gioielleria, è un percorso lungo e quel che noi possiamo mettere a disposizione sono i nostri errori perché chi impara possa analizzarli e superarli. Una regola che vale a tutti i livelli, anche per i famosi “yeux Cartier”, gli “occhi” che per noi acquistano le pietre», conclude. Forte di quello sguardo sulla bellezza del mondo, Jacqueline Karachi-Langane è riuscita ancora una volta a sbrogliare il gomitolo della complessità con quella leggerezza che sembra nascondere lo sforzo che si fa per ottenerla.
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