Viaggio a Lanzarote, isola austera e poetica tra i vulcani dove la primavera è eterna
L’isola dell’esilio felice di Jose Saramago è un luogo metafisico sospeso fra venti e Oceano: un viaggio fra coltivazioni di malvasia, architettura del paesaggio, distese di licheni
di Mariateresa Montaruli
I punti chiave
4' di lettura
José Saramago non ancora Nobel arrivò a Lanzarote nel febbraio del 1993, 29 anni fa. Con la moglie Pilar, metà dei 40 titoli già scritti e una robusta reputazione di intellettuale anticattolico, si stabilisce a Tias, nell’entroterra di Puerto Carmen, nell’isola scelta come luogo di esilio, ma che diventerà casa. Estrema e lunare, conficcata nell’Atlantico a 125 km dalla costa africana, disegnata dal profilo inquietante di 236 vulcani e di innumerevoli bocche magmatiche, l’isola più settentrionale delle Canarie su cui soffiano morbidi gli Alisei plasmerà da allora in avanti la scrittura del Premio Nobel 1998 di cui ricorre, quest’anno, il Centenario della nascita. Come il paesaggio, diventerà asciutta, più austera.
Un caffè nella «finca» guardando l’oceano
Dopo il controverso “Il vangelo secondo Gesù Cristo”, Lanzarote è l’humus da cui nascono i “Quaderni di Lanzarote”, un diario intimo con lettere alla moglie e agli amici scrittori in cui Saramago non disdegnò di raccontare di quando, con pennello e un infuso di tè nero, si mise a scurire le fughe tra le piastrelle del pavimento della casa di Tias. A casa, una finca bianca e squadrata contenuta da cactus e muretti di basalto, dalla finestra della cucina, la tavola sempre apparecchiata perché un caffè, come intendeva il lusitano, non lo si negava a nessuno, si contempla l’oceano. E si intravedono le palme, i carrubi, i melograni, la Sierra de los Ajaces e il promontorio di Papagayo, all’estremità sud, dove nel 1400 sbarcarono i primi conquistatori guasconi.
All’interno, tra i tanti quadri e i 15mila volumi della biblioteca, «nata per ospitare persone, non libri» e organizzata secondo il paese di provenienza degli autori, gli orologi sono fermi alle 4 del pomeriggio, l’ora in cui, a Siviglia, nel 1998, aveva incontrato la traduttrice nello spagnolo e futura moglie Pilar del Rio. Nel giardino, sotto un sole che è già africano, due ulivi portoghesi, due andalusi, uno volato via in un giorno di tormenta, l’albero che lo scrittore riteneva il rimedio sentimentale alla mancanza di umanità del mondo.
Il soffio degli Alisei tra gli ulivi
“Lanzarote no es mi tierra, pero es tierra mia” recita l’iscrizione sul piedistallo dell’ulivo scultura che annuncia la casa. A Lanzarote, il posto dove sette giorni di pioggia l’anno non spezzano, al cambiare della Luna, il ritmo lento di un’eterna primavera, gli ulivi ingaggiavano una guerra perenne con la sabbia nera e sopportavano l’agitarsi dell’aria costante sulla corteccia. La dolcezza degli Alisei che soffiano da nordest non basta, oggi come allora, a mitigare la durezza di un’isola senza compromessi.
Asini, cammelli e uomini chini sulle vigne non innestate, mai attaccate dalla filossera, piantate in scodelle di ceneri solidificate, le radici sviluppate come ombrelli e protette da muretti di pietra lavica nella zona di La Geria, la raccontano contadina. Ma l’affaccio della casa sul vicino Parco Nazionale di Timafaya, la surreale terra rovesciata, a nord di Yaiza, plasmata dalle eruzioni susseguitesi tra il 1730 e il 1824, riporta bruscamente all’essenza: Lanzarote è un mare di lava spezzato dal bianco dei camini detti arabi, con il tettuccio a forma di turbante. Uno spartito interrotto dalla presenza delle piantagioni di aloe vera di Barbados e dai vigneti di malvasia. Il Parco, uno dei motivi-must per andare a Lanzarote, è spruzzato da una sottile polvere di licheni, l’unica traccia di vita che si riforma spontaneamente dopo le colate di cenere.
Percorribile solo su sentieri prestabiliti, il sentiero di Termesana, la Ruta de los Vulcanos o la più insidiosa Ruta del Litoral, Timanfaya, 51 km2 di superficie e 30 km di perimetro, nasce nel 1974 per tutelare il “malpais”, un paesaggio, zona di riserva integrale per il 90%, frutto di creazione e distruzione.
La sua camera magmatica residuale è ancora presente a 4-5 km di profondità, il che spiega le temperature di 100, 200° che il suolo può raggiungere in certi punti. Meglio camminare con i ranger. Per poi andare a sciogliere l’inquietudine nell’antica cantina di El Grifo, a Masdaque, il cui museo di civiltà contadina ha il soffitto costruito con travi pescate da imbarcazioni naufragate.
Buone tappe anche la Bodega Stratus che produce bottiglie con il collo che riecheggiano il profilo dei vulcani e la Rubicon che conserva una trave arrivata nel 1600 dall’Avana, il latte di capra mescolato alla calce per tenere insieme le pietre basaltiche della cisterna. Entrambe le cantine sono sede, a giugno, dell’evento Sonidos Liquidos che allaccia creativamente musica, vino e lava vulcanica.
Dalle viuzze di Teguise a El Golfo, per un tramonto sull’oceano
La lava solidificata è reinterpretata come inscindibile dall’arte anche nella casa-studio dell’architetto César Manrique, a Tahiche, qui chiamato negli anni 1970 a riqualificare l’isola. Le sculture rompono le onde sonore del vento e le ondulazioni naturali del terreno delimitano i volumi delle cassapanche e dell’architettura. Teguise, poco lontano, è il borgo rurale meglio tenuto di Lanzarote, con conventi, palazzotti e viuzze lastricate.
El Golfo, sulla costa sudoccidentale, è il miglior posto per contemplare il tramonto sull’oceano. All’alba si va a Punta Papagayo, un deserto con cinque mezze luna di sabbia affacciato alla disabitata Isla de los Lobos, non lontano dalla casa di Saramago. E tutto chiarisce. Non venite a Lanzarote per le spiagge che sgretolano in sabbia fina appena il 30% della linea costiera. Ma per sprofondare nel tepore austero e primitivo che nell’isola Riserva della Biosfera ha assoggettato anche la scrittura.
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