ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùI miti dello sport italiano

Vittorio Adorni e la rivoluzione del ciclismo in tv

Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi

di Dario Ceccarelli

6' di lettura

A modo suo, è stato un rivoluzionario. Ma senza mai vantarsene, proprio come i veri rivoluzionari che le cose le fanno senza bisogno di annunciarle ai quattro venti.
Vittorio Adorni, 85 anni, scomparso senza farsi notare troppo alla vigilia di Natale, era un bel tipo. Non solo come protagonista in corsa, ma anche come persona. Una persona gentile, un campione determinato: un'abbinata che non sempre coincide.

Aveva quel “non so che”, quel “savoir faire”, come dicono i francesi, che non ti può insegnare nessun libro. Sapeva vedere in anticipo le cose, intuiva lo svolgersi di una corsa. E sapeva esprimersi in ottimo italiano, cosa rarissima in quel ciclismo, appena successivo a Bartali e Coppi, in cui la stragrande maggioranza dei corridori veniva da famiglie umili.

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Contadini, muratori, artigiani. Le due ruote erano un ottimo ascensore sociale, uno strumento per uscire dalla povertà vera. Se si parla di campioni, naturalmente. Altrimenti i magri introiti da gregario non è che permettessero chissà quali lussi. Anzi, spesso, quando veniva l'inverno, molti s'ingegnavano a fare altri lavoretti per far quadrare le spese.

Primo campione figlio della tv

È in questo contesto, in questa Italia che sta lanciandosi nel boom economico, che comincia la storia di Vittorio Adorni, primo campione figlio della tv. Già, perché oltre che fuoriclasse sui pedali (maglia rosa al Giro '65, campione del mondo nel 1968 a Imola), Adorni inventò anche un genere che fino ad allora era sconosciuto: il commentatore tecnico, la seconda voce che fa spalla al conduttore televisivo. Ma il bello è che lo fa quando corre ancora da professionista, spesso in maglia rosa o comunque in lotta per la classifica.

Era stato Sergio Zavoli, celebre inventore del “Processo alla tappa”, che lo aveva ingaggiato nel 1965 come collaboratore fisso del suo programma. Vittorio era perfetto. Sia perché, pur essendo un autodidatta, sapeva farsi capire, sia perché nel gruppo era una figura carismatica e quindi, se poneva una domanda a un collega, questi gli rispondeva prontamente. «Nella prima parte della corsa, quando non era ancora scoppiata la bagarre, andavo in mezzo al gruppo con un registratore a tracolla e il microfono in mano per intervistare i miei compagni», racconterà Adorni diversi anni dopo.

Un corridore “mediatico”

Una rivoluzione, insomma: da intervistato si trasformò in intervistatore, facendo sfoggio di una proprietà di linguaggio che gli permette di interloquire con giornalisti e intellettuali che Zavoli invita dopo ogni tappa per aumentare l'interesse attorno al Giro d'Italia: Gianni Brera, Mario Soldati, Pierpaolo Pasolini, Indro Montanelli. Fu proprio Montanelli, rimasto impressionato dalle doti di Vittorio, a sollecitarlo a scrivere di ciclismo. «Adorni, lei deve scrivere per il Giornale», tuonò al telefono il grande direttore. «Dottore, non sono un giornalista, non sono diplomato, non so se sono in grado…», replicò il campione emiliano. «Non se ne parla nemmeno, l'ho sentita in televisione, lei ha stoffa, meglio di tanti miei colleghi…».

Adorni, nato a San Lazzaro Parmense il 14 dicembre 1937,sapeva stare con tutti: con gli umili, e con le persone importanti. Il suo approccio era sempre lo stesso: familiare, amichevole, mai supponente. Diventò amico anche di Romano Prodi dopo aver partecipato nel 1955 alla cronoscalata Reggio Emilia-Casina di 20 chilometri. Adorni arriva primo, il futuro presidente del Consiglio invece settimo. Le loro strade, fortunatamente per entrambi, si divideranno, rimanendo però sempre molto amici.

Il rapporto con Anquetil

Un precursore, Adorni, che, finita la carriera in bicicletta, avrà modo di affinarsi come seconda voce a fianco di Adriano De Zan. In più Vittorio aveva un'altra qualità che in tv aiuta: era un bell'uomo, alto, biondo, occhi azzurri, che piaceva alle donne. Era spigliato, ironico. Diciamo che faceva il paio con Jacques Anquetil, il campione normanno che in Francia, con la sua classe, e il suo modo di comportarsi, aveva elevato il tasso di eleganza del ciclismo. I due infatti s'intendevano e si stimavano. «Non si capisce se la bicicletta sia stata inventata per Anquetil o se Anquetil sia nato per andare in bicicletta», diceva Adorni quando parlava del campione francese, famoso anche per i suoi raffinati gusti gastronomici (ostriche e champagne in particolare) che si poteva permettere grazie a un fisico straordinario, anche durante le corse.

Chi si somiglia si piglia, dice il proverbio. E infatti, anche se in corsa si sono dati battaglia, Adorni e Anquetil portarono un vento di rinnovamento nel ciclismo. Sport non più solo di faticatori, ma anche di corridori moderni più in sintonia con una società che dalle campagne si era spostata nelle città e nelle fabbriche. Adorni è un po' il capoclasse di un gruppo di giovani rampanti: Felice Gimondi, Gianni Motta, Michele Dancelli, Franco Bitossi, Vito Taccone, Dino Zandegù, Italo Zilioli. Presto, nel 1968, arriverà anche Eddy Merckx, campione belga già vincitore di un Mondiale e due Sanremo.

Un leader in corsa

Vittorio leader alla Faema, gli fa da chioccia portandolo a vincere il Giro del 1968. «Adorni per me è stato un fratello maggiore. Mi ha insegnato tutto: io ero bravo, ma lui mi ha fatto capire l'importanza della tattica nelle corse a tappe. Mi diceva di aspettare il momento buono, che mi avrebbe fatto segno lui quando era il momento. Mi ha spiegato come gestire lo sforzo. Nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo è stato lui a dirmi quando sarei dovuto scattare. Io scalpitavo….Fidati mi diceva, il Giro lo vincerai a Lavaredo. Aveva sempre un consiglio giusto. Gli devo moltissimo».

Parlando di Adorni, e delle sue capacità comunicative (è stato anche conduttore di un telequiz “Ciao Mamma” con Liana Orfei), si rischia di prendere sottogamba le sue qualità di corridore. Vittorio è stato prima di tutto brillante campione, non a livello di Anquetil o Gimondi, ma comunque di primissima fila. Professionista dal 1961 al 1970, con 60 successi complessivi, Adorni è stato un protagonista del Giro d'Italia vincendone uno e arrivando altre sei volte tra i primi sette della classifica. Inoltre ha conquistato un Mondiale nel 1968 a Imola fuggendo a 90 chilometri dall'arrivo e vincendo con un distacco sul secondo (il belga Van Springel) di quasi dieci minuti. Un'impresa rimasta nella storia perché realizzata nelle strade di casa.

«Vittorio è stato molto furbo a fuggire così presto portandosi dietro Van Looy - commenterà Merckx - Poi Van Looy si è ritirato e ci ha fregato. Un'azione pazzesca». Anche Adorni la definirà un azzardo: «È stata la più bella pazzia della mia carriera. Volevo dimostrare di essere ancora un corridore vero», disse Vittorio al traguardo riferendosi ai magri risultati ottenuti prima del Mondiale.

I successi in bicicletta

Uno spirito indipendente, Adorni. Che nella sua carriera ha cambiato diverse casacche. Il suo primo risultato di rilievo è un secondo posto al Giro del 1963 dietro a Balmamion con la maglia della Cynar. Nel 1964 approda alla Salvarani dove l'anno successivo vince il Giro d'Italia con la preziosa collaborazione di un giovanissimo neo professionista, Felice di nome e di fatto, perché, oltre al terzo posto al Giro, neanche un mese dopo Felice Gimondi conquisterà al suo esordio la maglia gialla del Tour de France. Maglia rosa e maglia gialla: un'accoppiata indimenticabile per la Salvarani e naturalmente per Adorni che, come capitano, non poteva far di meglio.

Un altro anno magico, come anticipato, è il 1968. Che porta con sé il vento della contestazione. “Diamo l'assalto al cielo” era uno degli slogan più gettonati di quel periodo. E Vittorio Adorni, apripista di Eddy Merckx alla Faema, a modo suo lancia l'assalto ai vecchi poteri del ciclismo. Al Giro d'Italia, guidato da Vittorio, il belga sbanca la concorrenza volando sulle Tre Cime di Lavaredo. Adorni è secondo ma il suo capolavoro lo firmerà al Mondiale di Imola lasciando a bocca aperta gli avversari. Dieci minuti sono un distacco enorme. Che colpirà la fantasia del giovanissimo Davide Cassani: «In quel famoso 1968 , a Imola, c'ero anch'io. Avevo 7 anni e il mio babbo mi portò a vedere quella corsa che mi sembrò fantastica. Fu proprio quel giorno che mi innamorai del ciclismo decidendo che da grande avrei fatto il corridore. M'ispirai a lui anche per le telecronache. E ricordo che il primo mondiale da commentatore tecnico l'ho fatto assieme a lui e ad Adriano De Zan, nel 1996».

Il post su Facebook con cui Norma Gimondi, figlia di Felice, annuncia la morte di Vittorio Adorni, il 24 dicembre 2022

Il palmares

Dopo gli exploit del 1968, la carriera di Adorni imbocca la fase discendente. Si ritira nel 1970 quando ormai ha 33 anni, tanti ricordi e un palmares invidiabile. Oltre all'accoppiata Giro-Mondiale, vanno ricordati i 19 giorni in maglia rosa e e un decimo posto al Tour de France. Anche la sua seconda vita, giù dalla bicicletta, gli ha dato molte soddisfazioni. Oltre ai suoi brillanti interventi in tv, provò a cimentarsi come direttore sportivo alla Salvarani e alla Bianchi Campagnolo. Con risultati meno brillanti, però. «Non era il mio mestiere», commenterà Adorni qualche anno dopo quando diventerà rappresentante del movimento professionistico nella Federazione internazionale. Un ruolo da ambasciatore del ciclismo. Ma quando era necessario, anche da esperto di problemi tecnici e regolamentari. «Su di lui potevi sempre contare», ha detto Cassani. Sapeva muoversi, smussava, sempre con classe e senza farlo pesare. «E ogni tanto - ricorda Norma Gimondi - sapeva esserti vicina. Con un sorriso, con una risata, con un pensiero per mio padre».

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